Paco Plaza resta solo alla guida del nuovo capitolo della serie [Rec] (prossimamente il quarto titolo, addirittura Apocalypse, che sarà diretto dal solo Jaume Balagueró, qui accreditato come produttore creativo) e realizza un lavoro che, va detto da subito, lascia esterrefatti per la pochezza con cui ha mutato una pellicola altamente teorica, come fu il capostipite della saga, in un innocuo filmetto di zombi (o quello che sono). Visto sotto questa luce, la pellicola, può anche apparire divertente, con gore a valanga, profluvi ematici, spunti à la Rodriguez con forse anche qualcosa di De La Iglesia (in verità del tutto fuori luogo), e finale bellamente crudele, sebbene la superficie sia ben aldilà dall’essere scalfita. Ciò che più conta è che l’espediente del found footage, che sorreggeva i primi due capitoli, qui cede ad una regia tradizionale, sovvertendo di molto il senso della narrazione.
Nella sua soggettiva, nei suoi pianisequenza basculanti, il primo [Rec] si offriva ad una lettura stratificata; poneva la centralità del mezzo (la videocamera) come unica chiave per la legittimazione del reale, tentando di spingere la messinscena oltre la proverbiale soglia dell’incredulità; raggiungendo l’apice di un crudo assioma difficilmente confutabile: nulla è reale e razionale se non viene filmato e riprodotto su uno schermo. Rifletteva, quindi, sul significato della verità nella società massmediatica, nel contesto di una trattazione sul rapporto tra potere e società civile, riattualizzando il principio di Romero del contagio virale, alla luce degli annosi quesiti sui limiti della ripresa riemersi dal fatidico 11 Settembre 2001 (che animavano anche il contemporaneo Cloverfield di Matt Reeves, a riprova di un sentire catastrofico che ancora oggi non si è del tutto esaurito, anzi).
Di questo non vi è traccia in Genesis, che, piuttosto, ravana il fondo già toccato dal tonfo secco di [Rec]2, portando a compimento il processo di vanificazione degli assunti concettuali della saga, rischiando così di far rivedere quelli, non come sentite e ragionate metafore sulla contemporaneità ma come casuali forme simboliche, al più rispondenti ad un incontenibile zeitgeist. Ma non lo si vuole credere ed è più facile immaginarsi una, ovviamente opportunistica, risposta pronta ad un mercato asfittico in cerca di successi garantiti da sfornare in serie, ad onta di una sempre più svilita caratura autoriale.
Così, si è costretti a sorbire il più classico dei filmini da matrimonio, nella realtà della pellicola ripreso da un cugino dello sposo (ma il momento in cui alla telecamera di questo, si sostituisce l’handycam del regista di matrimoni, la formula è già rotta), con tanto di neomelodico ispanico a commento sonoro; con gli zii, la cerimonia, il riso, il ricevimento, i molesti amici caciaroni, ecc. Il classico sposalizio a cui, c’è da credere, il frequentatore medio di Indie-Eye preferirebbe la forca. Plaza non sembra da meno e, dopo venti minuti di nulla rotti da piccoli segnali inquietanti, piazza un’improvvisa orgia di sangue e violenza, con enorme soddisfazione. L’idea è simpatica ma si svuota in un attimo: quando Plaza spacca letteralmente, simbolicamente, la videocamera, rompendo lo schema, alterando gli equilibri, svelando i meccanismi portanti e miniaturizzando irrimediabilmente la sua opera (addirittura, al personaggio dello sposo vengono tirate fuori le parole che qualunque spettatore ha detto almeno una volta da Blair Witch Project a Paranormal Activity: se siete nei guai fino al collo “che cazzo riprendi?!”), riducendo il pov in semplice estetica, come già avveniva in parte col secondo orrido capitolo, funzionale alla storia ma senza alcuna argomentazione a supporto.
Il resto è un rincorrersi tra gli anditi di una cafonissima villa per ricevimenti, con marito e moglie che tentano di riunificarsi dopo essersi dispersi nel caos generale di poco precedente, attorniati da una vera e propria ecatombe di parenti e conoscenti, mamma compresa. Nel mezzo: espedienti che vorrebbero essere ironici (le armature), crudeltà assortite, citazioni sparse ed il tentativo di produrre un icona à la Planet Terror (il Rodriguez di cui sopra) nella sposina inviperita per aver visto rovinato il giorno più bello della vita di una donna che, ridotto l’abito e svelata una maliziosa giarrettiera rossa, imbraccia una motosega beccata per caso e fa strage di mostri. E’ chiaro, quindi, che il vero problema di [Rec]3 è che, se anche si considerasse come pellicola autonoma, ed in effetti la vicenda narrata è del tutto slegata, o più che altro parallela, alle vicende del civico 34 della Rambla de Catalunya, sarebbe comunque un prodotto mediocre, poco incisivo, con una trama inutilmente melensa e soluzioni più che discutibili; per qualcuno forse anche godibile ma comunque da consumarsi in fretta e furia senza lasciare memoria di sé.
La genesi del titolo, infatti, non fa riferimento ad un ipotetico prequel come ci si attendeva ma all’ecumenico passo biblico citato a metà film, rinunciando così a svelare i misteri che ancora avvolgono la niña Medeiros, l’origine della sua possessione, i perché della diffusione del virus demoniaco. Si dovrà attendere il quarto capitolo ma, alla luce de La Genesi, bisogna ammettere che la curiosità comincia a venir meno. E’ pur vero che, mentre il compare si gingillava con questo assurdo giocattolone, Balagueró produceva, col minimale e crudele Badtime (orribile traduzione dell’enormemente più suggestivo Mientras Duermes), quell’autentico capolavoro di cinema ansiogeno, oltre che suo apice assoluto, che da solo potrebbe bastare a far risalire le aspettative anche sulla serie col bollino rosso.