Non è per le cattive recensioni, ci tiene a precisare McBride, ma per uno stato di cose che sembra non cambiare: l’industria cinematografica statunitense è interessata alle storie degli sceneggiatori afro americani solamente se queste sono intrecciate a storie di bianchi. Si prendono a pretesto le nomination all’Oscar di Viola Davis e Octavia Spencer per il ruolo di 2 cameriere in The Help, 70 anni dopo la vittoria di Hattie McDaniel nel ruolo di Mamy in Via col vento.
Ecco la lunga lettera\manifesto di McBride diffusa via internet
La scorsa notte il presidente Obama, il nostro primo presidente afroamericano, ha presentato il suo terzo State of Union address. Nello stesso giorno l’American Academy of Motion Picture ha candidato all’Oscar due talentuose attrici afroamericane, Viola Davis e Octavia Spencer nel ruolo di due governanti per il film The Help. 73 anni fa Hattie McDaniel era la prima donna afro americana a vincere un Oscar, nel ruolo di una governante e schiava, in Via col vento.
Forse sto invecchiando, ma l’ironia è davvero troppa. O forse è una canzone che già conosco. Nel 1970 quando ero una matricola all’Oberlin College io e i miei amici ci siedevamo a parlare di razzismo per tutta la notte. Da quei discorsi non veniva fuori mai niente di buono, neppure quando tentavo di portarmi a letto una ragazza. Ma in quelle fredde notti io mi convincevo che quando sarei uscito dall’università il razzismo sarebbe stato solo un ricordo. Invece la realtà mi ha colpito in faccia come una bottiglia di vetro quando ho cominciato a camminare nel mondo reale. Ora, 33 anni dopo mi ritrovo a parlare delle stesse cose. Personalmente non ho niente contro la signora Davis e la signora Spencer che sono attrici eccezionali, ma è la loro nomination 73 anni dopo la vittoria di Hattie McDaniel a parlare.
Come co-sceneggiatore e co-produttore dell’ultimo film di Spike Lee Summer Red Hook e del suo precedente Miracolo a Sant’Anna sono cosciente di ciò che è la sopravvivenza culturale a Hollywood per un afro-americano: è una strada piena di trabocchetti e contraddizioni. Vorrei aver saputo questo quando ero ancora all’università. L’America è una super potenza perché la nostra cultura ha invaso il pianeta: Apple, Disney, Levis Coca Cola, Pepsi, MacDonald, Jazz, Rhythm & Blues, Rock and Roll, Hip Hop. La nostra cultura domina il mondo peggio di quanto farebbe una qualsiasi bomba nucleare. Questo tipo di guerra culturale che a Hollywood e a Washington conoscono bene rende l’America potente oltremisura. La forza di questa cultura viene in grossa parte dall’anima dei Neri, dall’esperienza afroamericana di danza, musica, arte e letteratura, ma questo tipo di guerra culturale mette gli sceneggiatori – neri, asiatici, latini e afroamericani – in minoranza. Il mio amico Spike Lee ne è un esempio. Tre giorni fa alla premiere di Red Hook Summer, lui persona solare e gentile con una carriera multiculturale alle spalle, ha perso la sua calma per 30 secondi. Rispondendo alla domanda sul perché abbiamo realizzato Red Hook Summer in modo indipendente ha spiegato che non avremmo mai potuto eguagliare con questo film gli incassi di Inside Man, che è costato solo 45 milioni ma ne ha fatti incassare più di 184mila, più altri 37 con la vendita dei DVD. È parso che lui se la fosse presa per le critiche negative al film. Ma non è per le critiche, fanno parte del mestiere.
Un esempio può essere il recente successo di Red Tails prodotto da George Lucas che racconta la storia dei piloti neri Tuskegee. Il nostro ultimo film Miracolo a Sant’Anna ha reso omaggio alla 92esima divisione, tutta afroamericana che ha combattuto in Italia sul campo è stato fortemente penalizzato prima ancora che uscisse. Può darsi che fosse un brutto film, e che se lo meritasse. Ma la differenza sta nel fatto che quando George Lucas si è lamentato pubblicamente del fatto che ha dovuto personalmente finanziare il suo film perché Hollywood non sapeva come commercializzare un film sui neri nessuno lo ha chiamato fanatico. Ma quando è Spike Lee a parlare si dice di lui che è un militante e un malcontento, ma sono 25 anni che lui ripete sempre la stessa cosa, ed è dovuto andare in Italia per raccogliere i fondi per un film che onora dei soldati americani, perché, a differenza di Lucas, non è un miliardario. Non poteva produrre, commercializzare e promuovere il suo film come ha fatto Lucas con Red Tails.
Ma è una vecchia storia che racchiude in se un elemento più importante: in questo mondo succede quello che i bianchi vogliono far succedere. È qui il problema di essere uno scrittore, un regista o un musicista nero. Essere neri è come stare a servizio, come il protagonista di A spasso con Daisy, solo che è uno di quei telefilm che durano tutta la vita. La tua esistenza è profondamente unita a quella del tuo capo, ma è lui che decide se la tua storia è valida e lo è solo nella misura in cui coinvolge anche la sua. Perché si è come delle cameriere culturali che servono musica, vita, dolore e spiritualità. Si pulisce la casa, si portano i bambini a scuola, si servono uova e caffè e i bianchi ringraziano, ti pagano e ti domandano come stanno i figli. Poi loro si tuffano in piscina e tu torni alla tua vita, qualunque essa sia. E se si è fortunati si può aspirare ad essere il vecchio e saggio nero che dispensa perle di saggezza, il vecchio poeta o bluesman che cerca di guarire i bianchi quando in realtà non si può guarire nessuno.
In tutto ciò non c’è assolutamente niente di male nell’essere bianco, io stesso sono mezzo bianco e fiero di esserlo. Non c’è giorno che non pensi a mia madre, bianca ed ebrea, e alle lezioni sull’umanità che mi ha dato.
Mi capita sempre più spesso di vedere dei film che sono parodie della nostra comunità. Una tempo ritenevo che se soltanto ci fosse un modo pacifico potremmo far ascoltare a Hollywood i tamburi della vera America, le voci della classe operaia, dei poveri, dei neri, degli asiatici, dei latini, dei nativi americani. Gente che lavora la terra o nei fast food, che guida i camion e che quando finisce il suo turno se ne va in chiesa. Ma la nuova generazione di repubblicani ha preso sempre più piede, e questo mi lascia con niente se non la convinzione che come concetto Hollywood e Washington sono la stessa cosa, portano avanti questa guerra culturale. Prendono la pistola che tu stesso hai disegnato e la usano contro di te.
James McBride
Le reazione di blogger sono state immediate: per alcuni lo sfogo di McBride è da condividere (in alcuni post viene citato persino Gandhi quando diceva “Sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”), «è un saggio così ben scritto, rivela perfettamente il grado di frustrazione e sconforto. Sono d’accordo con ogni parola». «tutto questo esprime anche i miei sentimenti, leggere questa lettera e percepire l’emozione di chi l’ha scritta mi fa girare la testa», per altri la polemica è piuttosto sterile: «Dovrebbero rilassarsi, invece oltre ad aver realizzato il film si sostituiscono pure alla stampa!» «Ci sono tanti attori di successo afro-americani a Hollywood: Halle Barry, Monique, Woopy Goldberg, Jennifer Hudson hanno tutte vinto l’Oscar, per non parlare di Denzel Washington e Will Smith» e ancora: «Io sono messicano e trovo McBride lamentoso, piagnone e anche geloso»
Qualcuno infine ritiene, malgrado la pertinenza della provocazione culturale lanciata da McBride, che non sia il caso di sminuire le 2 indubbie ottime prestazioni di Viola Davis e Octavia Spencer in The Help: «Certamente è un saggio appassionato, ma non posso non pensare a tutti quegli autori che realizzano un film indipendente mettendoci anima e corpo che però non viene visto quasi da nessuno. Molti vorrebbero avere il riconoscimento che ha ottenuto Spike negli anni. Lui ha molto talento e questo gli è stato riconosciuto, forse anche di più rispetto ad altri registi che di talento ne hanno altrettanto. Ma questa non è una gara. Le prestazioni di Viola Davies e Octavia Spencer sono grandi e meritano un riconoscimento, devono essere celebrate e non sminuite perché i ruoli sono quelli di 2 cameriere.»