Come Integrazione a questo articolo, da questa parte il video dell’incontro con il pubblico di Ishaan Nair e di Nandita Jain, autrice del corto d’animazione Myths about you
Il blu in tutte le sue tonalità è il colore che domina il nostro sguardo, sguardo guidato dalla macchina da presa che si insinua soffice e decisa nelle pieghe della casa-castello-fortezza inespugnabile (o quasi) dove tre sorelle vivono e lottano attraverso la loro vanità. Kekti, la maggiore (la vanità manifesta), Pratigya, la sorella di mezzo (la vanità incerta), e Devak, la minore e la preferita dal padre (la vanità repressa). La lotta è davanti e dietro lo specchio, specchio negato (il padre gli proibisce di possederne uno, avendo cacciato di casa la moglie per la sua supposta eccessiva vanità), specchio nascosto (Devak e Pratigya ne nascondono uno insieme ai gioielli della madre, che si provano e riprovano in assenza del controllo paterno), vetro che si trasforma in specchio, superfice qualunque riflettente una bellezza bramata, coltivata o, come per la sorella piccola obbediente e studiosa, scoperta all’improvviso, destabilizzante e allettante insieme.
Ed è proprio questa scoperta che rompe come un sasso fatto cadere nello stagno intatto la fissità del quadro, increspa la seta delle vesti, scuote la monotona litania delle faccende domestiche e della reiterata e innocua infrazione delle leggi paterne.
Kitki che fa della bellezza la sua arma contro l’affetto mancato del padre si scopre detronizzata- il ragazzo che le piace le preferisce Pratigya, la sorellina Devak diventa ogni giorno più bella, inconsapevolmente- e l’odio inizia a fermentare dentro di lei. Lo specchio non la riconosce più come la più bella del reame, e da Biancaneve, dolce e soave come la vediamo nelle immagini iniziali mentre si trucca e agghinda coi gioielli della madre, si trasforma in strega, mettendo in atto un maleficio nei confronti della sorella minore, con tanto di gallina decapitata con rito annesso.
Sollecitata dalle lusinghe delle due sorelle, Devak cede alla bellezza della propria immagine, e si macchia del peccato più temuto e occultato: essere bella sapendo di esserlo, essere donna sapendo di poter esercitare fascino su chi le sta accanto: la macchia la copre letteralmente, fango che squama la pelle e immobilizza, come una statua di sale che si è biblicamente voltata dalla parte giusta dello specchio ma sbagliata della legge.
La fortezza è rotta, forze centrifughe ne hanno liberato i confini: Kekti fugge, mentre l’urlo di Pratigya di fronte alla sorella in preda alla colpa si alza con la telecamera dal pavimento di pietra dove la macchia declina le sue linee- in netta contrapposizione coi rivoli d’acqua che abbiamo visto rigare il pavimento all’inizio, straccio che lava e libera dallo sporco della colpa.
Ishaar Nair compone con intelligenza pittorica un trittico sulla vanità femminile, usando la donna come una linea o una macchia di colore, da mettere in posa tagliando lo spazio nella maniera più elegante possibile, superfice setosa che si adatta alla composizione, ma suggerisce anche una condanna velata di una condizione sociale, quella della donna indiana, ridotta spesso ad un ruolo di decoro per cui la bellezza è l’unica pratica che, obbligatoriamente, essa ha il diritto-dovere-colpa di esercitare.