Girish Kasaravalli, classe 1950, è uno dei massimi esponenti del cosiddetto “Cinema parallelo” indiano. Degli autori di lingua Kannada, dello stato Karnataka, che negli anni Settanta dettero una notevole spinta allo sviluppo di una new wave indiana, producendo film d’autore a basso costo, è rimasto l’unico a filmare oggi al di fuori del circuito commerciale bollywoodiano, ottenendo riconoscimenti nei festival internazionali (ed una retrospettiva completa al Festival di Rotterdam del 2003).
Il suo ultimo film, l’undicesimo, Nayi Neralu (t.i. In The Shadow Of The Dog), incentrato sul tema della reincarnazione, è stato presentato, in concorso, al River To River.
L’intera vicenda (tratta dal romanzo di S. L. Bhyrappa, autore indiano molto amato in patria) ruota attorno ad un nucleo familiare: il sacerdote Achchannaih vive con la moglie malata Nagalaxmi, la nuora Vankatalaxmi, rimasta vedova prematuramente, e la nipote Rajalackshmi. L’inserimento, all’interno del nucleo, di un giovane che sostiene di essere la reincarnazione del figlio di Achchannaih, provoca inevitabili turbamenti.
Pochi sono gli indizi, i segnali peraltro incongrui, confusi come confusa è la mente del giovane, di un legame con l’oggetto amato e perduto. Diversa è la prospettiva con la quale le tre donne vivono la “reincarnazione” del figlio/marito/padre. L’anziana, devota alle tradizioni, accetta il giovane come fosse il figlio, la giovane nipote ne rigetta razionalmente la presenza, Venkatalaxmi, inizialmente scettica, si lascerà sedurre dalla illusione e dalle possibilità di una nuova vita.
Kasaravalli tesse lentamente le fila di un teorema volutamente imperfetto, nel moltiplicarsi continuo dei punti di vista; lascia scivolare con leggerezza la macchina da presa attraverso breve carrellate in interni, ad altezza d’uomo (Ozu è un riferimento costante del suo cinema) tra contrappunti di sguardi e semisoggettive, svelando man mano la natura ambigua ed illusoria del sentimento con un’ironia sottile e pudica.
Ma il film si impone anche e soprattutto come una straordinaria indagine sulle trasformazioni del corpo femminile, in particolare quelle sofferte e sorprendenti del corpo “di mezzo” di Venkatalaxmi che diventa, con il passare del tempo e l’alternarsi degli eventi drammatici (Venkatalaxmi si abbandona all’amore, riscopre la vanità dopo diciotto anni di vedovanza, rimane incinta, fugge dal villaggio per evitare la vergogna; il giovane amante si innamora di una donna più giovane, quindi viene arrestato per volontà di Rajalackshm, con la complicità di uno zio burocrate), il testimone unico di un melodramma sottratto.
La natura, che nella prima parte, domestica, era soprattutto un contrappunto fuoricampo nella seconda parte diventa assoluta protagonista: investe il giovane amante, riflessa attraverso le grazie di una ragazza, Sukri, che lo tradirà, e accompagna il corpo materno e orgogliosamente rigoglioso di Venkatalaxmi verso una nuova (ri)nascita.
In questo universo dominato dalla donna, manifesta nelle sue molteplici e mutevoli forme ed in perenne collisione con il destino, i due protagonisti maschili non possono che subire questo inafferrabile dinamismo con una rassegnata staticità: il giovane conserva per tutto il film la purezza indisponente di un bambino (anche quando, in prigione, il suo volto pulito e imbronciato diventa una maschera grottesca da barbone), il vecchio Achchannaih, di fronte alle incertezze, alle esitazioni della religione e della burocrazia, mantiene uno sguardo di assoluta dolcezza che rasserena gli animi e simpateticamente svela ogni volta la partecipazione di Kasaravalli alle sorti dei suoi personaggi.