Home news Roman Polanski: a film memoir di Laurent Bouzereau (Usa, 2012)

Roman Polanski: a film memoir di Laurent Bouzereau (Usa, 2012)

Una vita come quella di Roman Polanski è senza ombra di dubbio autentico materiale da romanzo (fiume). O perlomeno, parlando di cinema, avrebbe bisogno di un metraggio degno di Edgar Reitz affinché tutti gli eventi che l’hanno scandita possano essere esauriti nel loro potenziale drammatico. In questo caso si tratta di un documentario compilativo snello, agile e diretto, destinato a un bacino più ampio di quello dei cinéphiles più incalliti. Niente di solenne o monumentale come si poteva supporre, bensì un ritratto che scaturisce da una chiacchierata fra amici: l’intervistatore è Andrew Braunsberg, storico collaboratore e produttore di alcuni tra i più riusciti film di Polanski. Questa rievocazione delle tappe cruciali della vita privata e della carriera dell’autore polacco comincia in quel di Gstaad, piccola località di 2500 anime, dove, alla fine del 2009, Polanski è stato confinato in libertà vigilata dopo l’arresto all’aeroporto di Zurigo-Kloten, mentre si recava a ritirare un premio assegnato dal Zurigo Film Festival.

L’infanzia: dopo alcuni anni a Parigi, dove è nato, Polanski e la sua famiglia si trasferiscono a Cracovia. Siamo nel 1939, la guerra è ormai imminente. “Chi l’avrebbe mai immaginato che il primo paese invaso dai nazisti sarebbe stato la Polonia”, dice il regista segnalando allo spettatore la prima manifestazione di quel destino avverso che minerà per sempre la sua vita. Polanski racconta i numerosi shock dovuti alla barbarie perpetrata dai nazisti nel ghetto di Cracovia come l’improvvisa sparizione dei coetanei compagni di gioco, le costanti ed estemporanee fucilazioni nei vicoli, i prelevamenti coatti di persone e soprattutto la deportazione ad Auschwitz della madre, spedita direttamente in camera a gas. E’ nei dettagli più elementari, come la minuziosa e lacerante descrizione dei fiotti di sangue usciti dalla schiena di una vecchia dopo un colpo di pistola a bruciapelo, che si ritrovano più nitidamente le ferite inguaribili dell’anima di un bambino cresciuto con la morte nell’aria. Dettagli che sono stati trasposti da Polanski in varie sue pellicole, specialmente in Il pianista (2002), e che Bouzereau sa intrecciare in modo evocativo con le parole del regista. E’ qui il fascino di questo documentario, il percorso parallelo tra gli eventi biografici e la loro trasfigurazione filmica: uno sconosciuto che da un bosco all’orizzonte avanza con passo stanco su un terreno innevato è la raffigurazione, presente in uno dei primi corti di Polanski, di una fantasia infantile indotta dal bisogno lancinante di vedere ritornare a casa il proprio padre, disperso durante i rastrellamenti nazisti ( e ritrovato molto tempo dopo).

Le atrocità della guerra sono finite, in Polonia si instaura un regime comunista; Polanski comincia realmente a vivere, dopo varie esperienze (dalla radio ai set di Andrzej Wajda – nel 1955, recitò in Una generazione) tenta la strada della recitazione ma viene respinto da tre diverse accademie teatrali. Nel 1959, quando tutto sembra perduto, è invece la Scuola Nazionale di Cinema di Lodz che accoglie la sua domanda di ammissione: il suo talento artistico trova finalmente la via per maturare. Il primo lungometraggio, il capolavoro Il coltello nell’acqua (1962), inaugura la carriera folgorante, di raro eclettismo, che tutti conosciamo.

Al periodo londinese risale l’incontro con quella che diventerà ben presto la sua seconda moglie, la bellezza preraffaellita Sharon Tate, ingaggiata per ricoprire la parte di coprotagonista nella parodia horror Per favore non mordermi sul collo (1968). La ventata di felicità che arriva da questa relazione dura assai poco. Nel 1969, mentre Polanski si trova a Londra per lavoro, il clan di Charles Manson irrompe nella villa del regista, a Hollywood, e massacra Sharon Tate e altre quattro persone. Segue una monumentale inquisizione del regista da parte del tribunale mediatico, per il sospetto di un suo coinvolgimento nella vicenda. Bouzereau allinea, con un montaggio serrato, vari clip di conferenze stampa, telegiornali e prime pagine che, visti oggi, non possono che far sorridere per la quantità esorbitante di illazioni e accuse a buon mercato rivolte a Polanski, scontato esito di quel bisogno antropologico della società di creare capri espiatori per esorcizzare l’idea della morte. Senz’ombra di dubbio, confessa Polanski, la cruenta uccisione della moglie è stata per lui il colpo più forte inferto dal destino. C’è poi una singolare coincidenza che stordisce e cruccia il regista, nonostante la sua dichiarata estraneità a qualsivoglia affezione superstiziosa: sia la madre che la seconda moglie erano incinte al momento della morte. Nel ’77  il privato di Polanski passa di nuovo alla cronaca: il regista viene condannato per aver avuto rapporti sessuali con una minorenne. La sentenza lo mette dinanzi ad una scelta drastica: abbandonare gli Stati Uniti per sempre oppure scontare la pena in carcere. Un segmento delicato, questo, che Polanski commenta con sincero dispiacere, senza affidarsi alla retorica, senza eludere le domande più scomode di Braunsberg. A irradiare con nuova luce il buio periodo alla fine degli ’70 è Emmanuelle Seigner, modella e futura attrice e cantante, che diventerà la terza moglie di Polanski, esaltata dal regista in alcuni suoi film in tutto il suo ambiguo e ferino magnetismo seduttivo (il giallo di perfezione hitchcockiana Frantic, il torbido e fatale girotondo erotico Luna di fiele, il thriller dagli echi gotici e satanici La nona porta). Si chiude così il cerchio, con il racconto delle attuali traversie giudiziarie relative all’arresto svizzero.

La vita di Polanski, pur essendo stata più volte oggetto di documentari (una miriade quelli televisivi), nel lavoro di Bouzereau trova una freschezza inedita, dovuta al taglio intimista, sincero e pudico con cui viene ricostruito il privato dell’artista. Più che per le soluzioni formali questo lavoro è interessante per il clima che si crea intorno al regista, visibilmente a suo agio perché circondato da amici. E per quel senso anticelebrativo che permette una più facile complicità empatica dello spettatore, che quasi dimentica di essere davanti a uno dei più grandi architetti onirici dell’immagine nella storia del cinema.

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