Periferia di Torino, anni ’70: un gruppo di bimbetti vede irrompere la tragedia della pedofilia nella propria routine di giochi sporchi di terra e pomeriggi selvaggi. Isolati da una comunità di adulti miopi e asserviti alle differenze di classe, saranno gli unici a saper affrontare il Male ma da adulti dovranno sostenerne drammaticamente il peso, nei flashforward ricorrenti che ci mostreranno l’impatto devastante del dramma nella loro quotidianità: un interprete che gioca col figlio senza riuscire a lavarsi di dosso le ombre passate; un disoccupato che trangugia l’amarezza di un presente squallido perdendo tempo in un bar; una professoressa di Educazione Artistica colpita nel rimosso dall’ignoranza dei propri colleghi durante gli scrutini. L’adattamento di Ruggine sembrava una sfida perfettamente alla portata di Daniele Gaglianone, la scelta giusta per il passaggio ai “grandi” budget proprio per la ruvidità del romanzo di Massaron (ambientato però a Milano), per lo stesso coraggio nel non fare sconti, nel risultare sgradevole e abrasivo che risplendevano nelle pur imperfette prime opere del regista torinese. E se la struttura irregolare e una direzione del cast infantile che evita le carinerie e rende credibili i personaggi rimangono elementi lodevoli nel contesto del giovane cinema italiano, Ruggine fallisce sonoramente nel rappresentare in maniera plausibile e non manichea il peso del trauma nei personaggi cresciuti e la complessità strisciante delle tragedie reali. Affidata ad un Timi paurosamente sopra le righe, la figura del dottore pedofilo si palesa nella seconda parte del film come una pericolosa macchietta di pazzo nevrotico, che sgrana gli occhi, è preda di continui lapsus freudiani, farnetica di Hitler, canta arie liriche nei momenti di eccitazione e fa versi animaleschi per spaventare i bambini. Un mostro didascalico ed evidente, come si vorrebbe che i mostri fossero e come, purtroppo, non sono quasi mai. In generale, dal film emerge una preoccupante incapacità di suggerire visivamente, se non addirittura la convinzione che il grande pubblico, troppo lento, non capisca e debba essere imboccato dalla sceneggiatura e dal montaggio: tutto é ripetuto, ribadito, sottolineato da personaggi che pensano a voce alta, mimano affannosamente ciò che i flashback già ci mostrano e ripetono pedissequamente le frasi dei loro corrispettivi infantili per il rischio che lo spettatore non sappia collegare. L’aggravante è che un tono tanto affettato è scelto per raccontare una vicenda imperniata attorno ai temi del silenzio complice, del non-detto e del rimosso che torna improvvisamente a galla. Un film volgare, privo di sfumature e obliquamente ricattatorio, seppur scaturito da premesse coraggiosamente noir, ancor più da condannare perché rende facile e scolastica quella che dovrebbe essere l’inquietante e imperdonabile malignità del mondo adulto che si sfoga brutalmente sui più piccoli.