È innegabile che nel 1996 Wes Craven e il suo sceneggiatore Kevin Williamson abbiano sdoganato un modo di fare cinema di genere autoriflessivo, intelligente e fortemente consapevole del proprio pubblico, modo che ha fatto numerosi proseliti nell’horror e nei generi contigui. Altrettanto innegabile è che il primo Scream aveva un altro pregio piuttosto evidente: per la regia meticolosa, per l’intuizione di una maschera, di un modus operandi dell villain e per il misto di prurigine e timori delle vittime adolescenti, era un film genuinamente terrorizzante. Dopo quindici anni, due seguiti e manciate di parodie, la maschera è entrata pigramente nell’immaginario, il modus operandi si è inflazionato e la mano di Craven ha evidentemente abdicato al piglio auto-indulgente di Willliamson, forte di un mercato sempre più attento a lasciare infoiare le community di fan su internet. Ecco che il quarto episodio della saga di Scream cade ostaggio del suo stesso meccanismo, sostenendo durante tutta la pellicola un gioco di specchiamenti, rimandi e occhiolini che ammiccano al fandom pronto a sezionare il film nei forum, nei blog e su Youtube (sempre che il gusto di farlo si conservi, in un preconfezionamento tanto palese). Il sottotesto meta-cinematografico si fa così struttura portante a cui appendere i cascami di trama e personaggi, come fossero poster di pellicole di culto nelle camerette delle vittime di Ghostface. Si moltiplicano le videocamere e le vetrate/finestre-schermo, insieme ai film nel film nel film, alle autocitazioni contorsionistiche e agli accenni a convenzioni horror e alla pratica del remake. Nessun sobbalzo inferto alla sala, piuttosto un perenne e sempre più fiacco sogghigno alimentato dal facile riconoscimento del gioco e dal frenetico esercizio del “who is who”: mai come in questo quarto capitolo, la macelleria di Ghostface si alimenta di corpi presi in prestito da serie tv di culto, facendo del film un aggregatore di community e micro-idolatrie pop. Altro sintomo preoccupante di questa sterile frenesia comparatoria e combinatoria, è il fatto che già nei primi 20 minuti, Scre4m si sia sentito in dovere di fare i conti con le due saghe “rivali” Saw e Final Destination, lanciando dichiaratissime stilettate e dimostrando indubbiamente un atteggiamento piuttosto interessato alla fase difensiva. Se questo non bastasse resta ancora più di un’ora per sentir nominare, lettera per lettera, i titoli di una ventina di pellicole più o meno rilevanti del genere, fino al ridicolo di buttare lì, con finta distrazione, il nome di uno dei poliziotti di guardia alla scena del delitto: Anthony Perkins. Se qualche titolo nuovo è stato aggiunto in questo futile bigino di genere, Michael Myers e Jason Voorhees aleggiavano già abbondantemente nei tre capitoli precedenti: convocarli qualche altra decina di volte, perdipiù insieme ad una ridda di sodali e filiazioni, diventa esercizio quantitativo che lascia poco ossigeno alla qualità. In un sequenza del film, uno dei troppi patiti di horror in sceneggiatura rivela di stare organizzando, proprio nei giorni della strage, un evento a tema sui film ispirati agli omicidi di Woodsboro. “E dove avverrà questa masturbazione collettiva?” chiede la giornalista Gale Weathers. La domanda è tanto ammiccante che viene facile rispondere: nella mente degli autori, nelle sale cinematografiche, poi su internet e in questa stessa recensione. Il problema è che l’atto non è mai stato così poco divertente.
Scre4m di Wes Craven (Usa, 2011)
In Scre4m si moltiplicano le videocamere e le vetrate/finestre-schermo, insieme ai film nel film nel film, alle autocitazioni contorsionistiche e agli accenni a convenzioni horror e alla pratica del remake, la mano di Craven ha evidentemente abdicato al piglio auto-indulgente di Willliamson; la recensione di Alfonso Mastrantonio...
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