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Seraphine di Martin Provost (2008, Francia)

Wilhelm Uhde, gallerista tedesco scopritore di Picasso, Braque e Rousseau, negli anni prima della Grande Guerra si trasferisce con la sorella in una vecchia casa di campagna a Senlis, tra i violacei pastelli della regione francese dell’Oise. Qui rimarrà inaspettatamente folgorato dalle sgargianti nature morte di Seraphine Louis, umile e bistratta cameriera dalla psiche disturbata e dall’incolto talento visionario. La Storia e le beghe del vil denaro metteranno i bastoni tra le ruote del loro connubio, ma nel finale riconciliato, più che la miseria di una fine tragica, verrà sottolineata la breve scintilla che ha reso possibile la momentanea ascesa di un’artista/fantesca capace di precorrere i tempi senza accorgersene. Alle prese con un soggetto insidioso proprio per la sua lampante forza e umanità, Provost riesce a non banalizzare, svincolandosi dalla forma del biopic puro, rifiutando l’aneddottica e il calligrafismo celebrativo per raccontarci il curioso ed effimero miracolo dell’incrocio fortuito tra due straordinarie emarginazioni: quello avvenuto, saltando a piè pari le classi borghesi, tra una idiot savant capace di concepirsi solo attraverso la mimesi artistica della natura e un intellettuale dall’animo inquieto, segretamente omosessuale e attratto dalle passioni primitive e senza contegno. Il racconto rivela uno sguardo misurato ed essenziale, procedendo per pennellate funzionali non tanto alla narrazione pura dei fatti quanto ad un ritratto tattile e impressionista del personaggio di Seraphine, alla sensazione emanata dal suo universo quotidiano: tra una dissolvenza in nero e l’altra sono racchiusi momenti di prosaica e minuta routine, dai bagni al fiume alla fabbricazione artigianale e clandestina dei colori, dalla simbiosi con gli alberi alle fissazioni religiose, consuetudini di un’esistenza  marginale tesa all’esercizio dell’arte pittorica vissuta in bilico tra l’esperienza mistica e l’ossessione autistica. Se l’operazione riesce senza risultare stucchevole e buonista  bisogna darne merito (riconosciuto dallo stesso regista) a Yolande Moreau,  che presta al personaggio la propria figura sgraziata e popolare costruendo dalle biografie e dall’unico ritratto pervenutoci un ventaglio credibile e minuzioso di camminate, atteggiamenti, dondolii e smorfie attonite capaci di comunicare la figura di Seraphine con la sola forza di una posa. Librandosi in parte sulla riscoperta tardiva di una singolare eroina nazionale, la pellicola ha scatenato in patria un impetuoso tam tam di entusiasmi, conquistando ben sette Cesar all’edizione di due anni fa. Giunto ora nelle sale italiane, rappresenta un’occasione onesta e delicata per conoscere la storia umana di una autentica fauve, talento candidamente autarchico ed estraneo ai libri di scuola.

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