Christopher Sun mette nuovamente in piedi la saga introdotta da Michael Mak gonfiandola in versione steroscopica e attingendo a piene mani da alcune situazioni del film originale. Con la memoria al primo episodio del 1991 ci si sarebbe potuti aspettare un’applicazione furibonda del 3D; al di là delle gag di grana grossa, Mak era riuscito a sovrapporre i tagli sghembi del cinema di Hong Kong più adrenalinico ad una sfrenata fantasia erotica, reinventandosi la versione impudica di un immaginario debitore del cinema di King Hu (in particolare quello di Kong shan ling yu). Il primo Sex And Zen era quindi già un film che tendeva fortemente alla tridimensionalità dei corpi con un ingordigia incontenibile che fuoriusciva dall’inquadratura, ovvero tutto quello che manca a questo nuovo capitolo, organizzato entro i confini di un set ispirato, almeno nella prima parte, all’ordine geometrico della pittura erotica Cinese del periodo Ming, la stessa che sarà fonte di ispirazione per l’arte degli Shunga Giapponesi. Si allude quindi ad un erotismo molto più grafico e contemplativo, introdotto dai bellissimi titoli di testa e che avrebbe potuto permettere a Sun di elaborare uno studio dello spazio in funzione di una tridimensionalità nient’affatto banale; sfortunatamente, se si escludono i primi venti minuti, dove gli amplessi sono contemplati da una prospettiva vojeuristica che ci permette di andare al di là dello schermo, a poco a poco ci accorgiamo dell’inserimento strategico di elementi CGI situati al di quà (foglie che cadono, pioggia digitale, animazioni posticce) quasi fossero un amo per l’occhio usato come aggiunta ad una forma contemplativa evidentemente considerata insufficiente e poco spettacolare; da qui in poi il film perde anche questa piccola forza creativa nel tentativo fallito di sperimentare uno spazio che non sia quello degli oggetti puntati verso lo spettatore; non che la messinscena 3D sia assente, ma perde di peso con un grossolano utilizzo televisivo del fuori fuoco e con una perdita progressiva di quella profondità rappresentata dal tentativo iniziale di mettere su livelli prospettici diversi la monodimensionalità della pittura erotica Cinese, ricca di relazioni complesse tra i corpi ed elementi simbolici di contorno (natura, arredi, oggetti). Oltre a non essere rivoluzionario, Sex and Zen 3D non è affatto un film estremo (fa un po’ ridere tutta la promozione virale fatta per il film che punta addirittura alla parola “porno”) nonostante si serva di alcune attrici Giapponesi avvezze agli original video per adulti (Naami Hasegawa, Yukiko Suo e Saori Hara); pallidamente mescola residui di azione Wuxia, accenni ellittici alla deriva torture porn del terzo episodio della saga (Yuk po tuen III goon yan ngoh yiu – 1998), interpolazioni narrative dal primo episodio ma soprattutto sottrae lentamente l’estasi erotica dai corpi, quasi mai sorpresi durante un amplesso, sempre meno nudi, fino alla trasformazione definitiva in carcasse prossime alla morte.