L’amore per le ombre del cinema è trasparente nell’ultimo lungometraggio di Federico Zampaglione, una galleria di immagini ampiamente raccontata da buona parte della stampa che lo ha accolto positivamente, a partire da quel doppio incubo che sembra rovesciare il sogno di Joe nell’unico film diretto da Dalton Trumbo.
Una via per inventarsi un personale cinema dell’occhio che va oltre l’evidenza Argentiana dell’impianto sottolineata dal lavoro sulle musiche composte da Zampaglione stesso insieme al fratello Francesco e ad Andrea Mossanese, rilettura sanguigna di tutti quei suoni che da Morricone, ai Goblin sino ai Libra erano legati al cinema horror italiano tra il ’70 e l’80.
Un pneuma affettivo che si percepisce anche ai margini del film stesso, da Roy Bava come aiuto regista al supporto di Manlio Gomarasca, la vicinanza di alcuni registi “Romani” e il ringraziamento a “tutti i fan dell’horror” in calce. Oltre i desideri e le ossessioni Shadow strappa le immagini a questo cinema e le trasforma in un’esperienza dell’occhio, un percorso di astrazione del brandello cinefilo che confonde l’orrore del ricordo infantile con il disvelarsi della memoria storica, entrambi gli spazi si intrecciano e si rovesciano dietro una cataratta Cinematografica.
In fondo si potrebbe chiamare in causa Argento quando Nuot Arquint taglia la palpebra a Jake Muxworthy, ma ci è sembrato che lo sguardo spalancato sull’orrore del regista di Opera quì assumesse una caratteristica maggiormente sonnanbula, un’oscillazione tra l’abisso e la tenerezza che sembra illuminare con intermittenza Cinematografica le contrazioni facciali di Mortis cosi come il volto incorniciato di Leni Riefenstahl in una sequenza di scoperta quasi magica della luce. E’ la stessa lusinga che mescola perversione e amore nella canzone di Bixio utilizzata da Zampaglione più di una volta “Vieni, c’è una strada nel bosco,il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu?“.
Il rincorrer(si) di un’ombra.