Nel suo primo film, Steve McQueen affrontava la storia e le scelte di Bobby Sands, detenuto irlandese morto in seguito a un lunghissimo sciopero della fame, rendendola un saggio visivo sul corpo utilizzato come arma ideologica e dolente campo di battaglia, carcere nel carcere da cui astrarsi per affermare la libertà del proprio spirito. E il corpo magnetico dello straordinario Michael Fassbender ritorna in primissimo piano sotto la lente spietata di questo Shame, prestato ad un personaggio infinitamente più debole, prigioniero del proprio corpo come di un vicolo cieco, sessuomane e onanista autoannullatosi tra porno, prostitute e incontri occasionali, incapace di sollevarsi dalle proprie perversioni e affossato ulteriormente da un fascino evidente e scandaloso che non sa controllare. Ritorna anche l’icastico assolutismo del titolo, in entrambi i film un sostantivo legato ad una sensazione fisica e psichica, debordantemente presente nella sua assenza e nel suo potere distruttivo. Non prova vergogna Brandon nell’ostentare il suo potere seduttivo e la sua eterna disponibilità, nel suo continuo, ne è attanagliato nell’attimo immediatamente successivo al piacere, nel vuoto pneumatico di ciò che gli rimane attorno, di ciò di cui il suo freddo edonismo compulsivo lo priva: un qualsivoglia rapporto personale, assente persino con la sorella, suo fragile e affettuoso negativo e allo stesso tempo scottante e oscena presenza seduttiva. Sarà proprio il suo improvvido piombargli in casa, insieme alle attenzioni anche solo vagamente responsabili di una collega, a far deflagrare le conseguenze di una dipendenza tenuta a bada da un glaciale isolamento. Del proprio bagaglio videoartistico McQueen conserva un straordinario “senso della porzione” più che della proporzione, un crudo, geometrico e vibrante sezionare luoghi, corpi ed emozioni, imponendoli con violenza empatica in lunghi e immobili piani sequenza, come nella memorabile esibizione canora del personaggio di Carey Mulligan o nel suo intensissimo dialogo di spalle con il fratello. La sapienza chirurgica del regista britannico torna anche nella rappresentazione delle scene di sesso: incorniciata in un intimo campo medio quella più vicina al sentimento; ricacciato in un freddissimo totale il susseguente sfogo con una squillo, addirittura introdotto da un inquadratura dalla strada dieci piani sotto all’appartamento dell’hotel in cui si sta consumando; immersa in dettagli di carne e visi l’annullante orgia finale; confinato in un ossessionante fuori campo sonoro l’incontro della sorella con il repellente collega, altra testimonianza della gavetta di McQueen nelle videoinstallazioni, evidente nel sapiente e continuo utilizzo di voci, brusii e stranianti sottofondi rumoristici e musicali (tranne nelle enfatiche sequenze iniziali e conclusive). Un Bret Easton Ellis attuale, molto più asciutto e se possibile più disperato, lo yuppismo ossessivo degli anni ottanta viene sostituito in perfetta continuità con la permanente sensazione d’accesso della società odierna, nella schiettezza imperante e consumistica dei rapporti personali e nell’onnipresenza pornografica nel nostro quotidiano. Un film complicatissimo da portare a termine senza risultare pruriginosi o scandalistici, perfettamente riuscito nella sua oscura potenza grazie ad attori assoluti nel livello e nella dedizione e all’innegabile talento di un cineasta tra i più interessanti della sua generazione, portatore di uno stile contiguo alla sperimentazione e contemporaneamente avvicinabile da un pubblico decisamente vasto.
Shame di Steve Mcqueen (Usa, 2011)
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