Dopo alcuni corti, produzioni televisive e un debutto nella regia datato 2005 con Storm, gli svedesi Mans Marlind e Bjorn Stein esordiscono ad Hollywood con uno script di Michael Cooney, sin dalla fine degli anni ’90 attratto da formule noir mentali e cognitive (sue le sceneggiature di tracks of a killer, Murder in Mind e Identity di James Mangold). Shelter almeno sulla carta, non fa eccezione, e manipola una materia che sposta l’attenzione dall’analisi psicologica al dissidio tra scienza e fede, attingendo a piene mani da un repertorio che attraversa quasi tutta la filmografia di William Friedkin, non solo ovviamente The Exorcist, che in modo decisamente maldestro viene citato in più di un’occasione, ma anche pellicole meno conosciute come il bellissimo The Guardian, dal quale Shelter desume molto del decor magico e minaccioso. E di decorazione alla fine si tratta; infestato da citazioni snocciolate con indolenza, il film non riesce ad emanciparsi da un assetto di tipo televisivo ne a rendere viva e pulsante la materia; nell’infernale danza di personalità multiple una bravissima Julianne Moore viene ingabbiata in un meccanismo che le impedisce di liberare sofferenza e possessione; nell’epilogo tragico, quando la manifestazione del male mette in scena una ripetizione oscena della perdita, i due registi svedesi sembrano strizzare l’occhio a quel confronto incestuoso con l’orrore che rendeva intollerabile e potentissimo un film come The Innocents di Jack Clayton; ma davvero non vale la pena di sforzarsi per trovare qui dentro suggestioni e residui di cinema.