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Silent Souls di Aleksei Fedorchenko: la morte è un dolce passaggio

Ci sono tradizioni, a lungo assopite nell’inconscio collettivo, che una volta risvegliate soverchiano gli strati della coscienza con un richiamo senza tempo. E in queste tradizioni l’alfa e l’omega del Sacro sono serbate e simbolizzate in rituali, formalizzazioni normative che servono a tenere testa, secondo la descrizione che ne fa Ernesto De Martino, alla “crisi della presenza” dinanzi all’incommensurabilità della natura con i suoi cicli ineluttabili. I riti di cui si parla in Silent Souls derivano dall’antico popolo ugro-finnico dei Merja, che visse nei luoghi dove ora sono le città russe di Rostov, Kostroma, Jaroslav e Vladimir. Dopo l’improvvisa morte della moglie Tanja, Miron, deciso a seguire le pratiche funerarie Merja, chiede appoggio all’amico Aist che lo accompagnerà in un viaggio attraverso i severi e sconfinati scenari della Russi settentrionale, durante il quale il corpo della donna verrà cremato. Silent Souls è un on the road d’iniziazione alla morte e di comprensione dell’amore, ma è anche una lirica sul corpo femminile. Un corpo del paradosso, quello che rappresenta Fedorchenko: scaturigine dell’eros quando è senza vita, come accade nella scena in cui Miron e Aist ricompongono con gesti attenti e amorevoli, detergono e avvolgono in una coperta il corpo di Tanja, ripreso in uno scorcio che sembra un rovesciamento del Cristo morto del Mantegna; irrigidito e mortuario nel momento dell’amplesso, come quello con le due prostitute, mosse impercettibilmente dalle spinte pelviche dei due protagonisti (ridotti a presenza invisibile), in un’inquadratura frontale che le fa sembrare sdraiate su un tavolo d’autopsia, circondate da sonorità spettrali.

Oltre a essere descritto secondo logiche ambivalenti, il corpo della donna viene associato all’elemento acquatico, simbolo di purificazione e di rinascita che accompagna il viaggio dei due protagonisti nei paesaggi lacustri russi: «Il corpo vivo di una donna è un fiume che porta via il dolore. Peccato che non ci si possa affogare». La morte, però, così come raccontata nel film, non è qualcosa di terrificante, qualcosa da temere ed esorcizzare, bensì un passaggio “dolce” in cui il dolore si trasforma in tenerezza. Per questo motivo Fedorchenko ricrea un’atmosfera di realismo magico in cui vengono ridestate le fragranze inebrianti (verrebbe da dire narcotizzanti) di un mondo pagano e ancestrale, alle radici della spiritualità russa pre-cristiana, nel quale si può ritrovare un rapporto più armonioso con la morte (e di conseguenza con la vita). Non a caso la morte dei due protagonisti arriverà in modo quanto mai poetico, quasi liberatorio, con i due zigoli (Ovsjanki, il titolo originale, significa appunto “zigoli”) che escono di gabbia e volano all’interno dell’automobile ostruendo la visuale di guida a Miron.

La sceneggiatura minimalista di Denis Osokin (tratta dal suo racconto omonimo del 2008, pubblicato con lo pseudonimo di Aist Sergeev sulla rivista letteraria Oktjabr) riduce al minimo i dialoghi e lascia emergere la forza del non detto, mentre lo sguardo ipnotico (quasi in stato di trance) di Fedorchenko, mediante lunghi piano sequenza e stacchi di montaggio su particolari inaspettati e protratti, riesce a raggiungere un seducente effetto di straniamento affine a quello di Lo specchio (1974), una delle opere più magnetiche di Tarkovskij.

 

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