Più di 30 anni dopo Forza Italia, Roberto Faenza torna al documentario e lo fa insieme a Filippo Macelloni e alle penne di Rizzo-Stella, i due editorialisti del Corriere della Sera autori de La Casta. Utilizzando materiale d’archivio, le motion graphics di Andrea Gnesutta e l’interpretazione vocale di Neri Marcorè nei frammenti documentali dove era impossibile recuperare la voce originale del protagonista, l’autobiografia non autorizzata di Silvio Berlusconi avrebbe dovuto “farsi” da se, secondo Faenza, attraverso un racconto aderente alle fonti, recuperate dagli autori come una radiografia del Paese. Eppure, nella difficoltà di accedere a quelli che avrebbero potuto essere gli archivi fondamentali per la sua ricerca, ovvero le fonti Rai e Mediaset, il regista Torinese in alcune interviste rivela come il progetto di Silvio Forever sia stato reso possibile dal materiale condiviso e libero della rete globale. Questo gli ha permesso di rimanere fuori dal pedinamento falsificante della fiction giornalistica Italiana, modello del pessimo Videocracy, che raccontavamo come immagine completamente assorbita dall’immaginario del potere, ma con un procedimento che incornicia tutto l’immaginario disponibile in rete nel quadro di un player sin troppo domestico, confina la visione in un’area innocua, quasi familiare e riprobucibile da un punto di vista arcaicamente televisivo e irrimediabilmente disintegrata dalla diffusione selvaggia di quegli stessi frammenti attraverso i canali della rete sociale. Il tentativo di avvicinarsi all’immagine-Berlusconi come al mistero di un soggetto palindromo viene neutralizzato dal montaggio di Riccardo Cremona, attento a creare un percorso narrativo sin troppo coerente, una raccolta di informazioni popolari costrette nello sviluppo di un processo di lettura sin troppo lineare e che stride con la frammentazione dell’immagine digitale. La voce di Marcorè, irresistibilmente satirica nonostante le buone intenzioni di Faenza, le cornici digitali che simulano Youtube, il simulacro dei simulacri di Blob, sono in fondo immagini della distanza, frammenti di un dispositivo teatrale ormai invecchiato.