Elison Oswalt (Ethan Hawke) è uno scrittore di libri-inchiesta, che vive nel ricordo di un ultimo successo letterario risalente, ormai, a dieci anni prima. Convinto di avere scoperto il caso di cronaca nera adeguato ad esser trasposto su pagina e che possa condurlo ad una rinascita artistica, si trasferisce, con la moglie e i due figli, nella casa dove lo stesso delitto è stato consumato in passato. Qui, infatti, quasi tutti i membri della famiglia Stevenson, meno la piccola Stephanie di cui si perse ogni traccia, vennero ritrovati impiccati all’albero in cortile.
Dopo essersi scontrato con lo sceriffo locale, che si fa voce della piccola comunità di King County che volendo cancellare l’orrendo accadimento, malvede che qualcuno voglia riesumarlo, riportandola così nuovamente sotto quella luce sinistra che l’ha già illuminata, Elison fa la scoperta di un misterioso scatolone in soffitta contenente un proiettore e dei nastri.
Allestito uno studio, visionerà una alla volta tutte le bobine, scoprendo prima, che contengono le riprese di efferati delitti, ivi compreso quello degli Stevenson; poi, che malgrado siano distanti nel tempo e nei luoghi, i crimini stessi paiono collegati gli uni agli altri da una macabra ritualità, dalla presenza di arcani simboli esoterici in loco e, soprattutto, di un’inquietante, inspiegabile, figura dalle sembianze mostruose.
Sicuro di trovarsi al cospetto di un occasione unica per il proprio lavoro, decide di non affidarsi alla polizia, se non accettare l’aiuto, fuori dal servizio, di un giovane agente, e continuare a condurre le indagini per conto proprio, dovendo poco alla volta arrendersi allo scetticismo iniziale ed accettare l’idea che dietro gli omicidi, si celi il paranormale nelle fattezze di Bughuul: il demone che gli infantili e macabri disegnetti sul coperchio della scatola, ritraenti gli stessi omicidi, designano come Mr. Boogie.
Dopo la parentesi sci-fi del pessimo Ultimatum Alla Terra, l’incostante Scott Derrickson torna all’horror da regista, a sei anni dal tanto discusso The Exorcism Of Emily Rose (va ribadito: un buon legal drama in salsa orrorifica, che ha guadagnato molte più attenzioni di quanto i suoi reali meriti non giustificherebbero) e lo fa con un lavoro consapevolmente minore, senza pretese, quasi una dichiarazione di modestia verso chi lo aveva sopravvalutato (mai dimenticare che la sua penna ha vergato la sceneggiatura di quello che, a detta di chi vi sta scrivendo, è il più brutto film d’ogni tempo e luogo: La Terra Dell’Abbondanza di Wim Wenders). Che però è anche un sentito omaggio al re, Stephen King, ed i suoi archetipi letterari: lo scrittore in crisi creativa ad un passo dalla, o totalmente calato nella, paranoia; la provincia più profonda come luogo ostile e respingente, culla di ogni male, terreno o ultraterreno che sia; i bambini come passaggi di testimone tra i due mondi paralleli; Cujo citato direttamente in un dialogo. Oltre che al solito L’Esorcista, aldilà del tema demoniaco, citato apertamente per via di tante suggestioni visive piccole e grandi; per non dire che il povero Mr.Boogie ha più di un’assonanza col ben più inquietante Captain Howdy. Il soggetto si dice nasca da un incubo ricorrente che lo sceneggiatore C. Robert Cargill prese a fare dopo aver visto The Ring (ma in fondo, altro non è che la solita rilettura della favoletta dell’uomo nero o boogeyman come dicono gli anglofoni).
Nondimeno, un sottotesto che segue l’intera pellicola, sembrerebbe dire di un, meno scontato, metaforico scontro tra passato e moderno rappresentato dalla mancata dialettica tra i supporti dell’immagine: tra la tangibilità della celluloide e l’immaterialità dei files digitali; laddove però, Derrickson, non lascia adito alla comprensione di una sua netta presa di campo, ponendo ognuno di essi, sia come vettore di realtà reali; sia come portatore di oggettività non comprovabili, alterabili, da smentire. In un continuo alternarsi di sgranate riprese in (pseudo) super 8 e luminosi schermi di portatili e tablet; nastri riparati a mano, videocassette e montaggi digitali su computer. Con l’occhio del proiettore continuamente rivolto sullo spettatore, in una rifrazione circolare in cui ogni verità viene smentita ed il cinema rinnega se stesso all’infinito. Gioco buñueliano sin anche troppo scoperto, che però riesce a restituire, limitandosi dallo svilire del tutto quegli stessi assunti, il sentore di spaesamento e follia che pervade progressivamente il film, sino ad un finale, atteso finché si vuole, ma giustamente nichilista e tutt’altro che consolatorio (seppur aperto già da ora ad infiniti, programmatici, sequels).
Ovvio che le teorie formulate sulla storia dell’esoterismo dal professor Jonas (Vincent ‘Gomer Pyle’ D’Onofrio) sono pressoché risibili e quel che è peggio, alla lunga non sembrano produrre veri e propri effetti nell’economia del racconto. Così come inconcludente è la stessa figura del demone, con nome ovviamente assireggiante e maschera da King Diamond in cancrena, che non viene mai sviluppata organicamente ed il cui ruolo alla fine risulta appena accennato, fumoso. Anche gli effetti speciali ed i costumi non entusiasmano, risultando non poco posticci, e la regia degli attori più piccoli appare molto distratta. Di contro Ethan Hawke si dimostra, ancora una volta, uno dei migliori attori della sua generazione (ma forse perché da inguaribili romantici quali siamo, non riusciamo a dimenticarlo ragazzino cosmonauta in Explorers di Joe Dante e forse anche un po’ di più, come americano in vacanza in Prima Dell’Alba di Richard Linklater) e, pure in un contesto che non pare essergli del tutto congeniale, riesce comunque ben credibile, caricandosi addosso il peso dell’intera pellicola.
Sinister è un lavoretto onesto, che non dice assolutamente nulla di nuovo ma lo fa con giusto mestiere ed alla fine disturba molto meno di quanto non ci si attenderebbe, prevenuti.
Il perché, però, a fronte di un prodotto medio come questo, carino ma nulla più, e di aborti come Non Aprite Quella Porta 3D, in Italia non sia stato dato vedere film di ben altro spessore, che, pur non essendo dei capolavori incontestabili, tentano di rielaborare la sintassi della narrazione orrorifica, operando da angolazioni non comuni, introducendo stilemi e formule inconsuete, come Kill List di Ben Wheatley, The Woman di Lucky McKee, Red State di Kevin Smith, o lo stesso Berberian Sound Studio di Peter Strickland, per non dirne di alcuni usciti già da qualche tempo, restano i misteri di una distribuzione videolesa, che non rischia, non si scontra col pubblico, non riesce a rapportarsi con la propria contemporaneità, se non accondiscendendo ai gusti ormai anestetizzati della platea più ampia. E questo è male.