martedì, Novembre 5, 2024

Sogni e Delitti – di Woody Allen: la recensione

Il bianco sembra essere il colore che accomuna i tre film girati da Allen a Londra: Match Point, Scoop e Cassandra’s Dream. Lo stesso bianco degli interiors femminili bergmaniani illumina il candore dei vestiti di Scarlett Johansson che senza farne parte finisce per penetrare pure l’ultima pellicola in uno dei classici sdoppiamenti che solitamente Allen riserva a se stesso: la bellissima mora Hayley Atwell veste, gesticola, parla come Scarlett (almeno in lingua originale), la bionda Sally Hawkins sembra una versione imbruttita e parodica della stessa.

Il bianco come colore acromatico, che contiene in sé ogni possibile sfumatura, è il colore ideale per ingannare i toni e giocare con le apparenze. Allen aveva svelato le carte nel precedente, sottovalutato Scoop, presentandosi al pubblico come un vecchio illusionista ormai incapace di sorprendere, con i suoi trucchi desueti. Dopo aver chiuso il sipario con Melinda e Melinda sulle idiosincrasie newyorkesi, ormai estenuantemente in punta di penna, l’Allen “anglosassone” si riscopre capace di osare, giocando più scopertamente con tematiche da sempre care: il caso e la morte.

Il gioco non è soltanto la facile metafora che percorre i tre film rapportandosi con l’una e con l’altra tematica (il tennis in Match Point, i tarocchi e tutto il corredo dei giochi di prestigio in Scoop, il poker e la corsa dei cani nell’ultimo), è anche la condizione, burlesca, con la quale affrontarle. La ritrovata vena dissacratoria si traduce filmicamente in una tendenza all’esasperazione di forme e topoi cinematografici spesso lontani dalla propria estetica. Allen non era mai stato kitsch come in Match Point, pesantemente grottesco come in Cassandra’s Dream. Difficile riscontrare nei suoi vecchi film volgarità come il “sesso” sotto la pioggia della campagna londinese tra la Johansson e Jonathan Rhys-Meyers, il ralenti sul volto della Atwell in difficoltà per l’inceppamento dell’auto o l’inquadratura gratuita del ponte di Londra nell’ultimo. In Cassandra’s Dream, il più sporco dei tre film londinesi, calembour di dramma, black comedy, tragedia (nel senso classico del termine), farsa. Il cambiamento di toni e registri raggiunge i livelli di un Blake Edwards inacidito, specie nelle forzature della recitazione. In questo Allen è aiutato da attori in stato di grazia.

Ewan McGregor e Colin Farrell nel ruolo dei due fratelli protagonisti chiamati dallo zio parvenu a liberarsi, in nome dei soldi e della famiglia, di un ex collega che minaccia di denunciarne i traffici loschi sembrano miracolosamente cogliere le esigenze del copione, le dissonanze continue, l’alternanza persino sorprendente tra istanze realistiche, ambigui sottotono, straniamento e caratterizzazione grottesca. Esemplare il mezzo primo piano di McGregor durante la sequenza della richiesta oscena ai fratelli da parte dello zio Howard (Alleniano fin dalla sua evocazione). La fissità dell’inquadratura, di una  bruttezza trascendentale, dopo un travelling circolare attorno ai tre sotto la pioggia (l’acqua è un altro motivo che unisce i tre film londinesi), contribuisce ad accentuare la ridicola espressione di McGregor.

Il brutto, mai così esibito e coerente con la materia narrata, contribuisce ad una sensazione di disagio (così come mette in disagio la piatta partitura musicale di Philip Glass), di un disgusto diffuso, sempre più distante dai fastidi personali che caratterizzavano gli ultimi film newyorkesi, sempre più vicino alla percezione universale del male, ai delitti e castighi dostojevskiani, ad un nero cinematografico (mai così bianco) che guarda a Lang e a Hitchcock. In questo Cassandra’s Dream funziona più di Match Point, che era fin troppo chabroliano nel filmare i giochi di potere dell’alta borghesia. Partendo dal basso, dai sobborghi, nella patria del cinema “engagé” che tanto ha a cuore il destino delle classi più deboli, Allen realizza uno dei film più esplicitamente politici degli ultimi anni, un pamphlet anticapitalista (o meglio, una riflessione sul “potenziale capitalista” che è in ognuno di noi) di una superficialità illuminante, tendenzioso ed ironico come qualsiasi discorso si possa affrontare sul capitalismo oggi.

L’ossessione dello status symbol, la fortuna come scappatoia rispetto al sacrificio e ad una meritocrazia ormai assente, la salvaguardia delle apparenze sono temi affrontati con la stessa paradossale, irriverente leggerezza con la quale i protagonisti disquisiscono di Dio, di Los Angeles, di Shakespeare o del teatro greco. E se alcune situazioni sembrano guardare al passato (il padre sembra uscito da un Radio Days, la sequenza grottesca dell’ingresso nella casa della vittima ha qualcosa del primo Allen) il finale sulle acque, di una violenza inusitata, quasi polanskiano nella sua valenza “mitologica”, chiude il sipario di un Allen imperfetto e vitale che fa ben sperare per il futuro del suo cinema, disperare per quello dell’umanità.

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