Presentato a Cannes 2013, Only God Forgives di Nicolas Winding Refn (tra i suoi film: Drive, Valhalla Rising, Bronson) è uscito nelle sale il 30 maggio, battuto in velocità solo da La grande bellezza del nostro Sorrentino.
Refn è profetico nel titolo del suo film. Infatti solo Dio può perdonarlo. Lo spettatore, o almeno quella parte di pubblico che accorre in sala fiduciosa nel fatto che un regista che va a Cannes non sia proprio come il figlio del vicino che va in giro a far filmini, bene, lo spettatore pervertito non lo perdona.
Non gli perdona, innanzitutto, quel presumere di sé che tracima ovunque, quel compiaciuto riflettersi su qualsiasi superficie specchiante, quel guardarsi gioioso nell’occhio inebetito dello spettatore “sprovveduto”.
Non gli perdona di odiare i suoi attori. E Goslyng e Scott Thomas sono buoni attori. Refn ne fa polpette, loro restano bravi lo stesso, ma si pensa alle loro performances con molta pena, una volta superati i novanta minuti del film.
Siamo in Thailandia, volo di 36 ore dall’America, Bangkok, hotel super lusso, palestre di kendo, thai boxe e locali a luci rosse, quartieri poveri subito dietro l’angolo e discariche industriali per regolamenti di conti a basso costo.
Gosling/ Julian è lì da un pezzo a spacciar droga per conto di mammà Crystal (che sta in America ed è la Scott Thomas) sotto copertura di palestra kendo e arti varie. Un fratellino molto cattivo è lì con lui. Poi capiremo che è così perchè mammà l’ha viziato, è il suo preferito e ce l’ha più grosso di Julian (così almeno racconta lei a cena nel ristorante cinese, prima delle ordinazioni, alla ragazza di Julian completamente basita). Ecco dunque perché il piccolo va in giro a bere e ammazzar prostitute! Naturalmente prima o poi tutto si paga, e così il giovanotto vien fatto fuori dal padre di una prostituta che, a sua volta, verrà fatto fuori anche lui e via così fino a fare un macello generale che neanche Zatoichi nella sua forma migliore.
Ma chi tesse la tela della violenza come arma di moralizzazione non è un samurai, non è un ronin, è uno strano tipo ascetico in completo scuro, esperto di Muay Thay, che tira fuori lo spadone dalla schiena, usa aghi ipodermici come un chirurgo, squarta in verticale dalle spalle all’inguine alla velocità della luce, ma è solo un commissario di polizia, per di più in pensione, col gusto della canzone sentimentale. Quindi la sera, dopo aver fatto giustizia qua e là, canta con voce alla Rabagliati nei locali sotto gli occhi beati e compiacenti dei suoi ex colleghi, che lo seguono come fosse un guru.
Mamma Crystal in parrucca bionda boccoluta si precipita appena saputo della morte del suo cucciolo; il povero Julian, che già parlava poco prima, perde totalmente la parola, mentre s’impone a questo punto, massiccio e spiazzante, il mitologema dell’Eroe e della sua lotta impari per affrancarsi dalla presenza divorante della Grande Madre.
Tema junghiano per eccellenza, archetipo a cui lo stesso Refn fa riferimento nella conferenza stampa di presentazione del film a Cannes, fa capire tante cose delle sue scelte di regia. E capire non vuol dire, necessariamente, giustificare.
Le “tonalità monocromatiche” virate al rosso totale di cui si legge come tratto distintivo di una poetica da maudit (si arriva a citare Lynch, nientemeno!) il “teorema geometrico e visivo” che c’invitano a considerare come specifico e splendido connotato del film, per il resto misantropico fino al midollo per precisa volontà del suo autore e finalizzato ad espellere il pubblico da sè, non ci convincono, hanno l’odore della vernice che si dà ai vecchi mobili. Il giustiziere in pensione c’induce solo a pensieri del tipo: ma come si conserva bene a quell’età! La povera Scott Thomas in veste dark lady fa pensare alla vecchia signora del saggio pirandelliano sull’umorismo.
E il bravo Gosling? Dio l’ha perdonato per via della sua giovane età, e anche noi.