Source Code è il primo script per il cinema sviluppato da Ben Ripley dopo una serie di collaborazioni televisive tra cui due lunghi episodi della serie Species e The Watch, un thriller dallo sfondo paranormale diretto dal regista televisivo Jim Donovan. Ripley ci ha lavorato a lungo ed è sin da quando era sul set di Species che Mark Gordon, produttore di lungo corso, ne ha seguito gli sviluppi pensando inizialmente a Topher Grace come inteprete principale (Valentine’s Day di Garry Marshall, Predators, Take Me home tonight), portando il progetto alla Universal e alla fine virando su una casa di produzione neonata come la Vendome e sulla distribuzione affidata alla Summit Entertainment (The Beaver, A Better Life, The Three Muskeeters per citare alcune degli ultimi titoli).
Il nome di Duncan Jones arriva più o meno a questo punto in un contesto che si mostrava completamente diverso dalla completa autonomia nella quale aveva lavorato al notevole Moon, film che Jones stesso ha definito, in termini di sforzi e risultati, superiore alle condizioni produttive di partenza. Nelle numerose interviste che è possibile leggere nella rete anglofona Jones parla di come sia stato colpito dai potenziali elementi Hitchcockiani della sceneggiatura di Ripley, ovvero aperture della scrittura che gli hanno permesso di riappropriarsi di una personalissima idea di set e di cinema che con Source Code, invece di perdersi tra i rischi di una produzione ad alto budget, si consolida attraverso un minimalismo tagliente capace ancora una volta di sfruttare Green screen e la non “locabilità” del set come risorse visionarie.
Esattamente come in Moon, c’è uno spazio materiale contratto e la possibilità che il cinema si manifesti come una proiezione esterna possibile e riallocabile cosi da entrare in corto circuito con la presenza dei corpi. Rispetto al lavoro chirurgico di Christopher Nolan, dove l’immagine è un costrutto distopico che precede il contatto con la materia, la fantascienza filosofica di Duncan Jones oltre a dimostrare un controllo degno dei migliori risultati messi appunto dall’ “economia” Cormaniana, porta i segni di un cinema dell’esperienza dove le strategie logiche di una certa idea di messa in scena, parodiate dalla presenza del Dr. Rutledge (Jeffrey Wright), vengono messe in abisso da continue aperture, ferite, sincronie disattese.
Perchè al di là del fascino teorico del film, che rimane alla fine un elemento di superficie, il viaggio di Jones tra le piaghe del tempo è soprattutto una rilettura fisica e passionale di un cinema di corpi che si incontrano nello spazio liminale di uno schermo (al di quà e al di là), siano essi quelli Hitchcockiani in viaggio su un treno, le identità mutuali di Douglas Trumbull, tra carne e virtuale (Brainstorm), l’attrazione nel cinema di Nicolas Roeg, scienza inesatta come quella che si riferisce ai fenomeni di psicometria, i fantasmi nel cinema classico anglo-americano, da Mrs Muir, a George Bailey, ai “neri” Ulmeriani (il treno di Murder is My Beat ha qualche attinenza con quello di Source Code), fino alle immagini che vengono dalla morte o da un tempo palindromo che scambia la vita con la morte non solo nel Cinema di John Carpenter, ma anche in quella condizione terribile dell’esser corpi dati già per morti, come quello di Frank Bigelow in Dead on Arrival di Rudolph Matè.
Quella complessità dei processi identitari, che covava nell’immaginario crepuscolare di Moon assume in Source Code la forma di un viaggio ottico, dove il riflesso e lo schermo sono ciò che rivelano la persistenza della psiche attraverso il tempo, tracce di esperienze possibili che per trasformarsi in un potente esempio di Cinema del pensiero, si compromettono con la concretezza e la libertà del set, scatola del senso completamente aperta.