“Per fare un film completamente da soli – come ho fatto io ai miei inizi – non devi sapere molto, ma devi sapere di fotografia”. Così Stanley Kubrick si schermiva, sminuendo il suo approccio totale alla regia, la conoscenza artigianale di ogni aspetto del film che lo ha da sempre contraddistinto. Ma la gavetta come fotoreporter, sconosciuta ai più, è stata in effetti il puntello iniziale a partire dal quale il regista americano ha costruito l’enorme impalcatura della sua influenza sulle arti figurative del XX secolo. Fino al 4 luglio, Il Palazzo della Ragione di Milano ospita la tappa italiana della mostra Stanley Kubrick Fotografo, che porta alla luce un prezioso archivio di oltre 200 fotografie, inseguito per anni e infine ricostruito dal curatore Rainer Crone e risalente al periodo tra il ’45 e il ’50, durante il quale un giovanissimo Kubrick ha lavorato per la prestigiosa rivista Look. L’allestimento ci presenta una serie di servizi di cronaca e costume, raggruppati sequenzialmente per formare veri e propri racconti dal respiro cinematografico, mentre un numero minore di foto, più decontestualizzate e periferiche, che drappeggiano le pareti , affastellate una sull’altra in formato poster. Il consiglio è quello di soffermarsi anche su di esse, dato che la vocazione registica e cinestesica del giovane Kubrick va cercata in un’organizzazione della composizione visiva attentamente studiata e costruita, più che nella struttura narrativa dei servizi fotografici, indubbiamente presente ma non estranea alla forma del reportage. Un set fotografico già in qualche modo sinfonicamente “diretto”, che si distacca in questo dalla disciplina della fotografia documentaria capitanata da Walker Evans, il quale individuava nel fotografo un dispositivo capace di farsi tutt’uno con la macchina e rubare alla realtà il suo istante fotogenico e rivelatore, senza interferirvi ma quasi mimetizzandosi in essa. In questo parziale rifiuto si colgono le radici di un’idea anticipatrice dell’artista che verrà e che nelle pose e nei giochi geometrici già praticava quella “sottile iniezione nella coscienza del pubblico” necessaria a rivelare il bias autoriale, l’epifania del punto di vista che getta una luce ambigua e stratificata sull’oggetto ritratto. Come da lui stesso più volte affermato, anche al cinema Kubrick vedeva nell’intenzione asettica del documentario un’ipocrisia purtroppo insormontabile, a meno di mostrare chiaramente la presenza di operatori attraverso interpellazioni dirette e mise en abyme. Meglio concepire l’obiettivo come un occhio magico capace di visioni oniriche in cui la struttura delle immagini si contrae significativamente attorno ai protagonisti. L’occhio morbosamente posato sulla violenza del reale, tipico di fotografi suoi contemporanei come Weegee e Diane Ahrbus, si tramuta in uno sguardo complice e tiranno allo stesso tempo, che lascia emergere l’elemento disturbante dal velo di una naturalezza solo apparentemente pacificata. Così un reportage su un incontaminato paesino della costa portoghese rivela l’arroganza altezzosa e distaccata di una coppia di turisti americani, mentre la genetica crudeltà nascosta dall’ilarità confezionata del mondo del circo trasuda nei gesti affettatamente adulti di una piccola circense, nell’aspetto malnutrito di un tigrotto che cammina sulla schiena di un domatore sorridente, nell’indifferenza di un manager rispetto agli acrobati sospesi su un filo alle sue spalle. O ancora, colpiscono le cinematografiche pose da duro di un piccolo lustrascarpe precocemente cresciuto e responsabilizzato, che hanno il loro perfetto contraltare nelle moine artefatte di un’aspirante attrice dell’alta società. È soprattutto nei ranghi più elevati, nelle roccaforti della nuova rampante America del dopoguerra che si avvertono le vibrazioni di una pericolosa ebbrezza arrivistica: ne è teatro la Columbia University, dove l’emancipazione femminile passa attraverso la fiera ostentazione di una sigaretta, dove gli studenti più brillanti del paese , raccolti religiosamente attorno ad un ciclotrone di uranio o alle impalcature d’acciaio di un progetto ironicamente intitolato Betlehem, imparano a non preoccuparsi e ad amare la bomba. La mostra costituisce così un appuntamento imperdibile per i numerosi fan dell’opera di Kubrick, oltreché un eccezionale documento storico che ci consente di esercitare il senno di poi sugli anni di massimo vigore della potenza mondiale statunitense.
STANLEY KUBRICK FOTOGRAFIE (1945-1950)
a cura di Rainer F. Crone
con la collaborazione di Claudia Beltramo Ceppi
(catalogo della mostra di Milano, Palazzo della Ragione, 16 aprile-4 luglio 2010)Stanley Kubrick, uno fra i registi più amati del Novecento, è celebre per i suoi film capolavoro, pietre miliari per tanti generi nella storia del cinema.
Ma prima di essere maestro del cinema, Kubrick fu, giovanissimo, fotografo professionista, lavorando per cinque anni, dal 1945 al 1950, per una delle maggiori riviste americane, Look. Questo volume accompagna la prima grande mostra al mondo sull’opera fotografica del giovanissimo geniale Kubrick, curata da Rainer Crone, lo studioso che ha dedicato oltre dieci anni alla ricerca e alla catalogazione delle migliaia di negativi originali custoditi dalla Library of Congress di Washington D.C. e dal Museum of the City of New York. Oltre 250 fotografie, suddivise in dodici storie, rendono evidente l’eccezionale capacità di costruzione delle immagini che da statiche diventano parte di un racconto in movimento. Una straordinaria novità, frutto della recente scoperta dei negativi originali, che ha consentito di stampare per la prima volta al mondo queste fotografie fino ad oggi note solo nelle pagine d’epoca della rivista che le ospitò.
TITOLO
Stanley Kubrick Fotografie (1945-1950)A CURA DI
Rainer F. Crone, con la collaborazione di Claudia Beltramo CeppiSAGGI DI
Rainer F. Crone, Hubertus von Amelunxen, David Klein, David Benjamin Kveton, Alexandra von Stosch, Wolf WondratschekEDITORE
Giunti Arte mostre e museiFORMATO
26 x 28,5PAGINE
320ILLUSTRAZIONI
Circa 250, in bianco e neroPREZZO
45,00 Euro