Step up 3D è uscito negli states ad Agosto 2010, qualche mese dopo StreetDance 3D di Max Giwa e Dania Pasquini, una produzione britannica tutto sommato “lowcost” che ha avuto un ottimo successo anche extraeuropeo, tranne che in Italia dove il film è ancora inedito.
Con StreetDance il film di Chu condivide un approccio radicale al 3D, forse uno dei più importanti tra le produzioni tridimensionali viste durante quest’anno.
Step Up supera con una forza soprendente quel dissidio interno all’immagine che sembra ridurre la dimensione volumetrica ad una profondità di campo “storica”, combinazione di oggetti e occhi nello spazio che dalla memoria di Welles, Renoir, Hitchcock, Ophuls si affacciano, per esempio, sulle notevoli produzioni Pixar in modo ancora predominante, forse con la costante preoccupazione di non mollare una funzione diegetica comunemente accettata.
Toy Story 3D, più di Up che al contrario rappresenta la punta avanzata e coraggiosa del tridimensionale made in Pixar, non riesce a fare a meno del fuori fuoco e di un rapporto eminentemente ottico tra il primo piano e lo sfondo così da rendere instabile la presenza del 3D con un montaggio ipertrofico, serratissimo, colonizzato dal peso delle citazioni e della storia del cinema che alla fine ancora i corpi alle pareti.
Con una scelta simile a quella di Giwa/Pasquini Chu si preoccupa di sfondare lo spazio provocando un corto circuito oltre i margini dello schermo; il suo lavoro di coreografo in questo senso non viene riassorbito dal montaggio, ma recupera la visione frontale (sia essa perpendicolare, aerea, obliqua) per mostrarci uno spazio dalla morfologia brulicante come nel cinema di Busby Berkeley, liberando l’occhio in un feroce montaggio interno.
Come in StreetDance, corpi e oggetti nello spazio sono tutti a fuoco e i numeri di danza vengono consegnati ad un radicale tentativo di fottere (letteralmente) la prospettiva fratta della televisione riconducendo alla libertà del cinema l’inabissamento del tempo nella profondità dello spazio; più che nel film di Giwa/Pasquini Chu punta ad una libertà performativa contagiosa che passa attraverso una revisione del musical classico a partire dal rapporto tra corpo e spazio.
Che il tempo, nel cinema, sia anche una questione di volumi più che di montaggio, ce lo racconta non solo una bellissima e palindroma frase di Tarkovskij o una più “cinica” di Godard, ma anche Deleuze quando descrive l’apertura del mondo nel cinema di Vincente Minnelli; un riferimento pertinente all’approccio iperreale e coloristico di Chu capace di mostrare un’immagine non banalmente multiculturale, nella direzione coreografica e foto-pittorica che era anche di Plastic City. In questo senso il film di Chu e quello di Yu Lik Wai sono due esempi musicali molto vicini nell’estrudere più livelli di cultura popolare dalle mutazioni della città-set e con il tracciamento coreografico dei corpi, catturati nel loro farsi linea, luce, colore.
Tutta l’ossessione di per i led di Moose per esempio genera una serie di numeri che dallo spazio di battaglia della Jam, invadono anche quello urbano, lo ricolorano con un approccio ora Disneyano, poi Bollywoodiano e di nuovo neotribale. Viene in mente un video che occupa il confine visivo tra i ’90 e il nuovo secolo come Freestyler di Bomfunk MC’s, in quel tentativo naive e commovente di fermare il tempo, riavvolgerlo, modificare lo spazio e i colori, introdurre l’anima dell’improvvisazione nelle geometrie taglienti della città e allo stesso tempo inserire l’occhio, il remote control dentro l’arena dell’azione; sogni proto-tridimensionali come quelli di Rybczynski oppure anticipazioni di una prospettiva che sarebbe diventata comune con l’esperienza videoludica.
Questa funzione immersiva è la stessa a cui tende Chu nel posizionare l’occhio davanti al numero, nel ricercare in modo quasi tenero una flagranza documentale attraverso la camera di Luke (Rick Malambri) e nel puntare tutto sulla riduzione di quella distanza che il cinema come linguaggio al contrario, frappone. Toglie il fiato quell’ossessione per i movimenti che spinge i corpi sempre più avanti nel tentativo di afferrare e di guadagnare un propellente centrifugo, fino ai bellissimi titoli di coda dove il provino su una sedia diventa un numero immaginifico tra danza e mimo che cerca di disegnare uno spazio con le mani e di avvicinarsi radicalmente e in modo disperato ad uno dei due lati dello schermo.