giovedì, Novembre 21, 2024

Stoker di Park Chan-Wook

Il debutto Americano di Park Chan Wook ha scatenato una quantità infinita di recensioni molto simili e convergenti, ispirate alle pubblicazioni critiche Americane recenti e tutte concordi nell’identificare i riferimenti culturali più espliciti del nuovo film del regista coreano. Dall’esca horror lanciata durante la lavorazione, complice un titolo che per molti avrebbe potuto riferirsi alla vita famigliare di Bram Stoker, fino alla rilettura esplicita di alcuni canoni hitchcockiani, primo e più evidente tra tutti, l’ombra del dubbio, ispirazione che tutta la stampa Americana ha tirato in ballo praticamente all’unisono, come se Stoker ne fosse una sorta di versione post-moderna e perversa.

Eppure è molto forte la sensazione che il cinema digitale di Park Chan Wook sia più di prima interessato ad utilizzare questi e altri elementi convenzionali del racconto come motivi di una tessitura più complessa il cui centro risiede nei processi di generazione dell’immagine. È chiaro fin dai titoli di testa, dove la commistione di effetti Motion Tracking e movimenti congelati da numerosi freezed frames alludono ad una scansione del quadro che già era presente nelle scene di combattimento di Old Boy. Il movimento, strappato dall’occhio della macchina da presa viene digitalizzato e messo in condizione di esser trasformato all’infinito in fase di post-produzione, luogo principale per la creazione del senso.

Oggetti e personaggi, in questo modo subiscono lo stesso trattamento nel tentativo di cogliere caratteristiche altrimenti impossibili da registrare attraverso il racconto cinematografico per come lo conosciamo. La voce narrante di India ce lo suggerisce fin dall’inizio: “[….] Le piccole cose remote che le persone normalmente non riescono a vedere, per i miei occhi sono visibili. […] io non sono fatta solo di me stessa, indosso la cintura di mio padre stretta attorno alla camicia di mia madre e le scarpe di mio zio […]”

Al di là dell’esca psicoanalitica, rimane questa precisa dichiarazione di intenti, evidenziata attraverso due aspetti fondamentali; il primo registra la volontà dell’occhio di cogliere quello che normalmente non è visibile in termini fenomenici. Il secondo ci racconta come gli oggetti siano fondamentali nella formazione interiore di India, più di qualsiasi esperienza diretta del mondo, tant’è Stoker, ad un livello più semplificato, mantiene la struttura del racconto epistolare; anche prima che le lettere comincino ad occupare lo schermo, India si relaziona al mondo con quell’isolazionismo tipico del viaggio fatto dalla finestra della propria stanza.

Se già il Noir Americano degli anni ’40 insisteva sulla presenza scenica di oggetti destinati al consumo famigliare, la cui immagine veniva rovesciata in termini funzionali non solo a causa dell’influenza espressionista, ma anche come traduzione visionaria di tutte le ansie che stringevano la società Statunitense coeva, Park Chan wook isola questi elementi dalla tradizione di riferimento in una dimensione frattale, dove i personaggi perdono di qualsiasi consistenza per dissolversi tra i motivi di un’immagine moltiplicata all’infinito.

Le scarpe, le lettere, le decorazioni, la geometria binaria del set, spingono sullo sfondo tutto quello che sembra interessare ai critici (il plot, la famiglia, la psicanalisi, hitchcock) e lo riducono ad un elemento della tessitura. Per tessitura, intendiamo proprio  quel processo di sintesi noto come Texture che genera attraverso un algoritmo un’immagine digitale nella sua forma definitiva, a partire da un piccolo sample ripetuto.

Se non bastasse l’autismo di India e la relazione con i numerosi oggetti che abbiamo citato, presentati esplicitamente in forma Texturale da Park Chan Wook, a un certo punto, durante una sessione di disegno dal vero, Mia Wasikowska, ci mostra il suo modo di percepire la realtà disegnando proprio dei piccoli pattern decorativi, continuerà a farlo anche quando per dispetto le verrà messo sul cavalletto il disegno di un nudo; Park Chan Wook, con una soggettiva impossibile, si avvicina al soggetto disegnato per mostrarci lo sguardo di India capace di cogliere l’invisibile e con un didascalismo teorico decisamente esplicito inquadra proprio la Texture che costituisce la decorazione interna di un vaso da fiori.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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