Italia, 1949, durata 105’
di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman, Mario Vitale, Renzo Cesana, Mario Sponza
Di Paola Di Giuseppe
Rossellini gira Stromboli, terra di Dio nel ’49, alla ricerca di nuove strade dopo aver raccontato l’esperienza della guerra e le contraddizioni della pace con i rivoluzionari stilemi del realismo documentario di Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero. Forte della capacità che sembra ogni volta rinnovarsi di cogliere nelle immagini nude della realtà tracce di tragedie individuali e collettive, sente ora di dover guardare al nuovo profilo umano e sociale di un’Italia in ricostruzione, ma ancora dolorosamente segnata da mali secolari, tare pesanti quali miseria, ignoranza e arretratezza culturale, su cui il Fascismo e la guerra hanno aperto voragini. La vocazione documentaria che alimenta la sua inconfondibile cifra stilistica si ripropone intatta, pur nella varietà dei temi, perché, come afferma lui stesso:
“…gli ingredienti sono sempre quelli: il mondo e gli uomini e il bisogno di costruire il mondo, con le sue coordinate storiche, sociali, di ambiente, in modo contestuale agli uomini che vi partecipano, che gli sono presenti. Lo so, il mondo e gli uomini ci sono anche nelle favole, nelle invenzioni, ma c’è un mondo che appartiene alla fantasia, quello appunto dei film di fantasia, e c’è un mondo che appartiene alla realtà, quello del documento, del neorealismo; e mi riferisco in questo caso proprio alla realtà più piatta, più polverosa, più umile; soprattutto più umile. Perché per me la ricerca dell’umiltà è la cosa più importante; specie se ci si vuole dare un’etica, se si vuol raggiungere una certa morale. La fantasia non la tratterò mai più. Non perché la disprezzi, ma perché credo che il solo impegno cui metta conto dedicarsi oggi sia la documentazione della realtà. E questo per il solito principio, perché siamo spaventosamente ignoranti e perché, se davvero vogliamo viver da uomini, questa ignoranza ogni giorno di più dobbiamo cercare di demolirla; con tutto ciò che facciamo“.
Le vicende biografiche e paradossalmente scandalistiche che segnarono questo film sono note e appartengono alla storia del costume di anni ormai lontani, ma val la pena di ricordare l’osservazione di Moravia al proposito:
“Occorre dire che, senza questa avventura, non avremmo neppure avuto Stromboli che ne è la diretta traduzione cinematografica in chiave elegiaca e, si vorrebbe dire, freudiana. In altri termini, Stromboli è un film autobiografico; ed è da questa autobiografia, consapevole e inconsapevole, sofferta ed espressa con una delicatezza e un rispetto della materia rari in Rossellini, che vengono al film le sue più belle qualità di poesia e di verità psicologica….Il carattere, la natura, l’ambiente dell’isola sono descritti col solito vigore e la solita sensibilità per gli aspetti inameni e originarii. I due pezzi di bravura, la tonnara e l’eruzione, non esorbitano nel documentario e nella pagina da antologia. Ma l’interesse del film s’impernia soprattutto sulla Ingrid Bergman che, alle prese con una parte difficile, in un clima artistico così diverso da quello di Hollywood, ha fornito ancora una volta la misura delle sue rare capacità di interprete. Ogni volta che essa appare sullo schermo, la scena si anima e si ravviva in una vibrazione umana e poetica avvertibile anche dallo spettatore più distratto”.
Lo scarso successo ottenuto all’epoca non rende dunque ragione di un’opera che, pur non appartenendo ai capolavori del regista, merita ogni rilettura che sia attenta alle sue specificità espressive e ai connotati linguistici di qualità indubbia. Stromboli è innanzitutto un film di grande forza pittorica. Rossellini crea sequenze di immagini modulate secondo un’architettura che organizza coerenti piani geometrici fra l’habitat naturale, ripreso lungo un asse verticale (il vulcano che incombe dall’alto, i fianchi ripidi della sciara, il lungo pendio della lava) e l’insediamento umano alla base, con case povere di pescatori dai volumi squadrati e piatti, movimenti orizzontali sulla scena, come in processione, di uomini e donne, per il matrimonio o per l’arrivo della coppia sull’isola, per la fuga dall’eruzione o per il corteo delle donne del paese ostili all’intrusa straniera, per la banda dei suonatori o per il cerchio di barche a mare nella grandiosa scena della tonnara. Queste linee di sviluppo tra loro perpendicolari creano l’eco visiva della vicenda, e nella forza simbolica del quadrante superiore, dominato dal vulcano in eruzione sovrastato dal cielo stellato, si addensa il significato del film e culmina il processo ascensionale che porterà la protagonista alla consapevolezza di un’identità fino a quel punto dolorosamente smarrita. Karin Bjiorsen, una trentacinquenne Bergman al suo primo film con Rossellini dopo i trionfi di Casablanca (1942), Gaslight (1944) e Notorious (1946), è una giovane lituana chiusa in un campo profughi dove conosce Antonio, prigioniero di guerra ma pronto a rientrare nella vita civile come pescatore nell’isola dove porterà Karin, che lo sposa per restare in Italia. L’isola si rivelerà una seconda prigione per lei. Dapprima incredula, stupita di fronte alla sorpresa di quel che trova, poi sarà sempre più insofferente di quell’ammasso di pietre laviche, chiusa com’è tra l’incomprensione del rozzo marito (“very good and simple young” le dirà il prete) e l’ostilità della gente del luogo, in una condizione di totale mancanza di prospettive e solitudine esistenziale, prigioniera di uno spazio claustrofobico da cui finirà per tentare la fuga, benché incinta, durante un’eruzione. Donna sola, preda di un mondo patriarcale primitivo, fatalisticamente immobile nella sua miseria, ancorato a rituali atavici e impermeabile ad ogni cambiamento, è respinta anche dalla forza di una natura minacciosa, e arriverà a bestemmiare quel Dio in cui non crede. Ma oltrepassare il vulcano è impossibile, la donna tocca l’acmé della disperazione fin quasi al collasso, avvolta da fumi tossici, senza scampo. La perdita di coscienza, quindi il risveglio. Il tumulto sembra essersi placato, in lontananza occhieggia il richiamo delle case bianche, strette insieme alla base del vulcano. Il monologo disperato di prima ora diventa preghiera, per accettare quell’esistenza terribile fra gli uomini e la natura selvaggia solo Dio può darle la fede e, soprattutto, la forza e il coraggio per saperla vivere. Il versetto di Isaia che fa da epigrafe al film: “Mi han trovato quelli che non mi cercavano, mi son presentato a coloro che non chiedevano di me” ora appartiene anche a lei. La Bergman e il suo personaggio complesso sono all’unisono, i suoni della natura e le voci degli uomini tra dialetto siciliano e inglese si contrappuntano a vicenda, mentre scorrono immagini scabre, essenziali, solenni, che la mano di Rossellini guida sicura.