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Stupeur et tremblements di Alain Corneau: la recensione

Amélie e la Yumimoto, o dell’irresistibile discesa di Amélie da traduttrice a guardiana dei cessi.

Il signor Haneda era il superiore del signor Omochi, che era il superiore del signor Saito, che era il superiore della signorina Mori, che era il mio superiore. E io, io non ero superiore a nessuno. Si potrebbero dire le cose diversamente. Io ero agli ordini di Mori, che era agli ordini del signor Saito, e così via, a condizione che gli ordini possano, a valle, saltare i livelli gerarchici. Così nella compagnia Yumimoto io ero sotto il comando di tutti “.

Amélie (Silvye Testud), nazionalità belga ma nata a Kobe, e la Yumimoto, grossa multinazionale giapponese con ramificazioni nel mondo. Una piccola donna acqua e sapone, taglia 40 e due occhi verdi che parlano e ridono; un colosso giapponese, elefantiaco come il signor Omochi (Bison Katayama), secondo nella gerarchia dell’azienda. Occidente e Oriente a confronto davanti ad una fotocopiatrice, l’etica del bushido al tempo dei sarary men, gli eroi di Ozu al lavoro quotidiano, incasellati nei loro uffici al centesimo piano. Amélie é la scheggia impazzita, l’occidentale, il corpo estraneo da espellere o neutralizzare in qualche modo, é il barbaro, il diverso. Innanzitutto é donna. Alla signorina Mori Fubuki (Kaori Tsuji) ci sono voluti sette anni per arrivare a quel livello. Ha trent’anni, é giapponese e non si é ancora sposata.

Quale sacrificio più grande per una donna del Sol Levante in nome della carriera? Ora siede di fronte ad Amélie, é suo superiore, divide con tanti la stanza, prima di avere un ufficio tutto suo passeranno altri anni, e forse dovrà diventare uomo. Mori Fubuki é bellissima. Non solo, é alta. Su questo tema Amélie Nothomb, autrice di Stupeur et tremblements, autobiografia che Corneau traspone in immagini cinematografiche di altrettanta levità, ironia, gusto del paradosso e tagliente vena satirica, si diffonde parecchio. Alla Yumimoto la bellezza finisce di essere un valore aggiunto. Che Mori Fubuki sia così bella al punto che Amélie ne fa un idolo da contemplare con stupore e tremore, come l’antico protocollo imperiale giapponese stabiliva dovessero rivolgersi i sudditi all’imperatore, é cosa che non impedisce al grasso Omochi di piombare come tuono fra la selva di scrivanie e umiliarla in pubblico per aver trasgredito, certo involontariamente, una severa norma aziendale.

L’enorme ciccione, che trangugia pallettoni di cioccolato verde dietro la sua scrivania, é la summa di un sistema gerarchico che sopravvive intatto a tutte le rivoluzioni, guerre, cambiamenti epocali. Come per il samurai servire e combattere, ed eventualmente morire per il suo signore, rientrava nell’ordine naturale delle cose, ora che lo shogunato é tramontato da un pezzo, l’imperatore ha finalmente ammesso di essere uomo e non Dio, i samurai hanno riposto le katana nel fodero e cambiato le colorate armature intessute di seta e prezioso metallo con severi doppiopetto grigio ferro, c’é sempre tuttavia qualcuno  o qualcosa per cui combattere e morire: é la “gerarchia” incarnata nella Yumimoto, azienda ad alto fatturato e zero rischi d’impresa, uffici in acciao e cristallo con finestroni sui grattacieli di Tokyo, spazi asettici più di camere iperbariche, dagli ascensori alle toilettes non un filo di polvere. Una simile meraviglia, al pari della corte imperiale, dev’essere sostenuta da inflessibile gerarchia, impensabile che una qualsiasi donnetta che sa il franponese (così scherza la Nothomb sul suo bilinguismo) pensi di fare fotocopie decentrate al signor Saito, o tirar fuori un eccellente studio di settore che il capo non le ha ordinato di fare, o inventarsi spettacolini mentre distribuisce la posta (distribuire la posta, come servire il caffè, é uno dei primi scalini della discesa inarrestabile di Amélie). Ogni anello della gerarchia collabora con quello superiore per stroncare inopportuni guizzi di libera inventiva personale.

Amélie capirà finalmente questo principio solo quando sarà arrivata al gradino più basso della scala aziendale, cioé al rango di guardiana dei cessi. Ironia fulminante e leggerezza sono i connotati di un’opera letteraria da guardare che diventa film da leggere, tale é la connettività fra l’una e l’altro, l’interscambiabilità che ci fa dire, avendo letto il libro: “E’ proprio così che l’immaginavo!”

Crede che mi prenderebbero alla nettezza urbana?” dice Amélie alla bellissima Mori, viso di porcellana in primo piano, che le chiede cosa intenda fare ora che il contratto é scaduto e ha deciso di non rinnovarlo. Quel viso stupendo si illumina a quella domanda, per la prima volta vediamo il suo sorriso pieno di denti, é il suo orgasmo finalmente raggiunto, ora che il suddito ha finalmente dimostrato di essere capace di annullamento totale di sé di fronte al superbo Moloch aziendale a cui tutti sacrificano.

“Au Japon, l’existence c’est l’entreprise” scrive Nothomb.

Amélie non si perde mai d’animo, la parte giapponese della sua anima non dimentica il senso dell’onore, perciò non si licenzia prima della scadenza del contratto, quella occidentale guarda esterrefatta, si smarrisce per un attimo, poi capisce e sorride. Le sue umilianti retrocessioni ad incarichi sempre più assurdi si risolvono in sequenze cariche di uno humour che culmina al grido furioso di : “No paper…no paper” del debordante Omochi quando non trova la carta igienica in bagno. Siamo all’apeotosi del tragico: Amélie, strattonata e tremante, piange, desolatamente piange, rannicchiata sotto un lavandino. Entrano a questo punto Mori Fubuki e il tema sonoro di Ryuichi Sakamoto, parte la clip da Merry Christmas Mr. Lawrence con la storica sequenza finale della testa di Bowie che spunta dalla sabbia e il comandante Yonoi che gli taglia un ciuffo di capelli. Amélie ci vede una metafora dell’incomprensione tra Oriente e Occidente e del desiderio di comprendersi. Mori la guarda gelida e le dice: “Ma lei non somiglia a David Bowie”.

Tornano alla mente, a questo punto, le sagge parole di Mr.Lawrence:

Cercano di diventare superuomini, vivono nel passato… Erano una nazione di individui bramosi, sono diventati pazzi in massa”.

Forse la Nothomb esagera, hanno detto in tanti, forse il Giappone non é tutto così. Certo, e infatti Amélie ha lasciato lì il suo cuore, é la bambina assorta che vediamo in apertura e torna in chiusura.

Lasciare il Giappone fu per me uno sradicamento”, ha scritto in Stupeur et tremblements, le bellissime foreste del Giappone che diventano carta per fotocopie gettate a mazzi dal signor Saito nel cestino la fanno tremare di rabbia, é tornata nel suo Paese di elezione per essere utile col suo lavoro e, forse, non ha pensato di guardare prima i film di Ozu. Non avrebbe avuto sorprese.

Nonostante tutto, Amélie sceglie di volare. Complice la stupenda prova della sua interprete, Silvye Testud, ci regala un’idea di donna autentica, oltre le barriere e i pregiudizi. Madogiwa in giapponese é la finestra, angolo in cui l’ostracismo aziendale relega il giovane impiegato ritenuto inutile, costringendolo a licenziarsi. Da quella finestra Amélie vola sopra i tetti e fra i grattacieli di Tokyo perché, dice:

Finché vi saranno finestre, qualsiasi essere umano della terra avrà la propria libertà.”

Poi comincerà a scrivere, uno all’anno, i suoi incredibili romanzi.

 

 

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