Ritorno di prima caratura per il signor Thomas “Festen” Vinterberg, ex Dogma 95, ex prodigio della macchina da presa, ex nome sbertucciato a più non posso da intere schiere di cinefili che a) odiano Festen b) si chiedono, un po’ come tutti: ma che diavolo ha fatto, dopo Festen, quel danese là? Ebbene, dopo Festen, Vinterberg a) ha girato un bel video con i Blur che dormono, No Distance Left to Run b) c’ha provato a Hollywood con la science fiction romantica It’s All About Love, del 2003 c) ha girato il dandy-western Dear Wendy (2005), scheggia impazzita della trilogia americana di Lars von Trier d) ha licenziato la commedia En mand kommer hjem (2007), sconosciuta fuori al di fuori della Danimarca e) ha fatto Submarino.
Tratto dal bestseller del giovane Jonas B. Bengtsson, Submarino è un film che parla della famiglia. Sì, il link diretto è con Festen, e quando alla conferenza stampa di presentazione della Berlinale Wieland Speck parlava del tema “famiglie disfunzionali”, aveva in mente di sicuro questa bella pellicola di Vinterberg, disfunzionale quant’altre mai.
Il film parte con un cazzotto in pieno stomaco. Due fratelli (il maggiore, Nick, interpretato da Jakob Cedergren; il minore, senza nome, Peter Plaugborg) accudiscono il terzogenito appena nato. La madre è alcolista cronica. Il bimbo muore per l’imperizia dei due ragazzi. Nick porterà con sé per tutta la vita un senso di colpa che lo trasforma in un avanzo di galera (auto)aggressivo, mentre il fratello riesce a sposarsi e ad avere un figlio – nonostante i problemi con la droga. Sua moglie muore in un incidente e Martin, così si chiama il bambino, resta solo col papà. Da questi spunti si dipana una trama spaccacuore che supplisce a una certa prevedibilità con un’intensità emotiva rara.
La “disfunzionalità” sta alla base di tutti i personaggi adulti di Submarino, ognuno ancorato alla propria tara, ma fortunatamente non è il motore del film. Vinterberg e il co-sceneggiatore Tobias Lindholm scodellano una trama assai ben congegnata, che decolla col prologo traumatico e sembra “nascere” due volte. Nick tiene banco per la prima metà, fino al verificarsi di un nuovo evento traumatico, poi dalla nebbiolina invernale di Copenhagen emerge il padre di Martin, con un’altra storia e tanti altri problemi. L’ultima parte del film fonde le due trame e fa incontrare Nick e Martin in un finale da groppo in gola. Submarino, girato in 16mm e gonfiato a 35, è un film livido come i buchi nell’avambraccio del fratello minore o come la mano incancrenita di Nick, rimasta danneggiata durante un attacco d’ira. Un film sul rapporto tra adulti e bambini, sul superamento degli shock infantili e sulla necessità di arrivare a un proprio equilibrio per essere in grado di prendersi cura di un altro essere umano.
Libero dai lacci e lacciuoli del Dogma, Vinterberg si concede una bella colonna sonora rock e sognante (ad esempio Hollow Talk dei Choir of young believers) e realizza un film in grado di riportarlo sulla cresta dell’onda. Due ultimi scarabocchi a margine. Mostrare un neonato morto, anche se palesemente di plastica, è una mossa di pessimo gusto che andrebbe sempre evitata. Secondo. Per visualizzare la paranoia junkie del fratello minore timoroso di essere inseguito, Vinterberg inserisce l’inquadratura rapidissima di una mano che gli cala sulla spalla, anche se non è vero. Dato che non può essere una soggettiva questo si chiama barare, e come dicono anche ai bambini, non si fa.