Una casa qualunque. All’orizzonte, nuvole che si addensano. Curtis è un americano qualunque, un operaio di Cleveland con una moglie che lavora al mercato e una bambina sordomuta. La percezione di pericoli inesistenti e la paura di essere impotente di fronte ad essi si manifesta in lui tramite sogni sempre più angoscianti, fino a diventare paranoia e compromettere tutto il suo sistema affettivo e la sua stabilità mentale, oltre che economica.
Jeff Nichols, giovane regista statunitense, cerca qui di portare sullo schermo l’ossessione securitaria di un’intera nazione, tramite un protagonista abulico, contenuto, cosciente della sua lenta discesa verso la pazzia (un ottimo Michael Shannon, una recitazione per sottrazione che si concede solo un unico, deflagrante, scatto d’ira). Se l’enunciato alla base dell’opera può sembrare abbastanza banale, è nella resa filmica del sentimento di angoscia che Nichols stupisce e crea senso, regalandoci immagini apocalittiche di grande estro visivo e creando un climax di paranoia degno del miglior Polanski. Il pericolo arriva nei luoghi più intimi e personali (casa, macchina, lavoro) e attraverso le persone più care (la moglie, la figlia, il migliore amico). La paura di perdere quelli che sono considerati i capisaldi dell’american life (famiglia, casa e lavoro) si fa così grande che porta, paradossalmente, a perdere di vista tutte e tre le cose. Soprattutto, e qui il regista mostra la rotondità della sua idea, alla base di questa ossessione c’è una precarietà dell’esistenza tout-court: precarietà degli affetti, precarietà del lavoro (nella parabola discendente di Curtis i soldi rivestono sempre un ruolo importantissimo), precarietà della salute. E grande incomunicabilità, sia tra coetanei che tra generazioni (non a caso la madre di Curtis è schizofrenica, la bambina sordomuta). In questo senso, il bunker si definisce anche come luogo extra-sociale, rifugio ma anche luogo di isolamento, utile per rifugiarsi da un’esistenza dannata prima ancora che da una tempesta che ovviamente non c’è. Tutto questo è leggibile più o meno in filigrana, lo spettatore è spinto a indagare, a cercare le cause della follia di Curtis negli elementi di vita privata che il regista ci offre (immediato il collegamento mentale con “Perché il signor R. è colto da follia improvvisa?” di R. W. Fassbinder). Un film tenue, silenzioso, intimo: Nichols sembra avere capito qualcosa del cinema: Take Shelter è un grande puzzle, personale e sociale, tutto da costruire, una voragine mentale che si risolve nel prefinale e si riapre nell’ultima sequenza (mutuata dai Cohen?), geniale dimostrazione della ciclicità della paranoia all’approssimarsi della percezione di pericolo.
Forte della strabiliante prova recitativa di Michael Shannon e Jessica Chastain (“The Tree Of Life”), sicuramente Take Shelter è un capolavoro del cinema contemporaneo americano, e Jeff Nichols un regista di cui sentiremo parlare.