Il mio amore feticistico per le “cose” del mondo, mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: ma non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire (Pier Paolo Pasolini – Cinema e Film – A. I, n.I, Inverno 1966-67)
Si sta diffondendo con un certo livore l’idea che il “surrealismo” di Richard Kelly sia generato da un’idea autoritaria di Cinema, un accumulo di inutili bizzarrie ai danni dello spettatore che lavorando contro la narrazione atrofizzerebbe il cervello occupando lo sguardo; al di là dell’abuso di alcune parole (visionario, surrealista e cosi via) per definire qualcosa che sfugge, si tratta di giudizi a mio avviso avventati e superficiali come se l’inutilità fosse un concetto estraneo, tanto per fare un esempio banalissimo, al concepimento complesso di una macchina celibe, difetti, rotture e accidenti del caos inclusi.
Senza scomodare Duchamp e l’influenza interiore e materiale del tempo sulle sue “cose”, mi pare che buona parte del massacro “critico” mosso contro The Box manifesti una sfiducia tipica nella libertà dell’occhio, intesa come possibilità del racconto di abbandonare forme connotative più dirette e consolatorie a favore di un’idea espansa di sguardo, dove “consolatorio”, per chi scrive, ha un significato semplicemente dialettico tra ciò che sta all’interno e quello che si annida ai margini dell’inquadratura, non stiamo ovviamente parlando della maggiore o minore durezza di un plot, ma della sua, quasi onomatopeica pesantezza e cecità ideologica, al di là del fatto che sia in grado di consolarci o meno.
Viene in mente il fenomenologo Alphonso Lingis e i suoi “travelogues” filosofici quando interrogandosi sullo scorrere degli eventi come qualcosa legato anche alla proiezione di un desiderio individua il raggrumarsi in una forma non come la presenza di un oggetto impenetrabile ma come una matrice di variazioni, un significato che ha origine anche dalla congiunzione di elementi contingenti; occasioni (il passaggio degli eventi) e destino (la proiezione di un desiderio) con-fusi in uno spaziotempo di coincidenze materiali che si presenta istantaneamente come ordinato e caotico.
Per una lettura breve sull’idea di “Sensualità” e sul concetto di vivere il mondo “responsabilmente” secondo l’esperienza di Lingis rimandiamo a questa brevissima lettura, che in modo suggestivo potrebbe essere uno dei portali per affrontare la visione di The Box. La traccia Sartriana che allora Kelly lascia emergere come un filo visibile, cosi come le sacre famiglie che compaiono sul set, a dispetto di chi vorrebbe decriptare (in negativo o in positivo) il viaggio di Norma e Arthur Lewis come il veicolo di un pamphlet sul dissidio tra scienza e fede, superano il significato letterale moltiplicando il punto di osservazione, macinando science fiction, irridendo l’escatologia Chomskyana e grattando senza pietà il fondo del barile cospirazionista.
Kelly non gli da un peso esclusivo e non permette che si divorino il film, preferisce sovrapporre alla logica delle coincidenze piccoli fatti quotidiani la cui “turbolenza” diventa a poco a poco in-calcolabile e imprevedibile . Ci sono gli strati del cuore Famigliare al centro delle simmetrie apparentemente Kubrickiane che sostengono ogni inquadratura, ogni elemento del decor, ogni posizione dei corpi fotografati da Steve Poster in una luce che ricorda alcuni film crepuscolari fine ’70.
Tra un effetto di diffusione del colore vicino a certi interni di Shining e l’artificio del movimento digitale, torna quasi in mente la breve parabola televisiva di P.J Hammond, autore che in modo più invisibile di altri ha sperimentato un formato di transizione per una fantascienza di tipo filosofico, capace di aprire ferite nel racconto con le finestre aperte dai Chroma Key e da un’immagine digitalmente imperfetta per raccontare le anomalie del tempo in uno spazio quotidiano. Allora anche gli omaggi a Kubrick diventano volatili, la consistenza della carta da parati, gli elementi materiali del set o quelli del piccolo grande paradosso inventato da Richard Matheson nel film di Kelly si spingono verso un abisso frattalico dalle conseguenze dolorose.
È il cinismo del grande autore di Allendale che viene interpretato a partire proprio dal corpo della Famiglia, persa in uno spazio iperbolico. In fondo, il primo adattamento di Button, Button diretto dal grande Peter Medak a metà anni ’80 come episodio per la versione di Twilight Zone voluta da Steven Spielberg, era una semplificazione delle intuizioni Mathesoniane nello spazio intimo di una coppia, filmata con una sporcizia tutta inglese in un’aura di brutalità proletaria. Kelly parte da questa concentrazione dello sguardo e desume una serie di dettagli dal corto di Medak, inclusa la forma della “scatola, espandendo le possibilità allusive del racconto fino a quello che è stato definito come un tradimento ingiurioso da buona parte della critica.
Non siamo ovviamente d’accordo e nell’aderente semplicità all’originale del breve episodio di Twilight Zone ci sembra che la distanza con Button, Button sia molto più ampia, proprio perchè per somiglianza, l’immagine a un certo punto si sbarazza di biforcazioni e ambiguità. The Box è il film di un autore complesso e sicuramente incerto, imperfetto, controverso, aspetto che ci permette di avvicinarci al suo cinema con maggiore interesse rispetto ai soliti, solidi artigiani di genericità viste mille volte e semplicemente rimesse a lucido.
Kelly, con le dovute differenze condivide con autori come Lynch l’idea di un potenziale transmediale del racconto, con tutti gli eccessi dovuti all’ossessione di rivedere, ri-trasformare e a volte ditruggere i suoi stessi film (le varie versioni di Donnie Darko per esempio). Se allora Southland Tales era il tentativo di perforare il testo filmico come un campo di battaglia dove far convergere i più disparati formati in una sorta di affermazione e negazione allo stesso tempo del concetto di interattività, partendo da tre graphic novel che Kelly stesso aveva scritto insieme a Brett Weldele, The Box è quasi un riassorbimento di quel terremoto in un set almeno apparentemente “classico” che si apre ad un’idea di cinema potenzialmente infinita come nelle intenzioni del piccolo “inland empire” di Matheson.
In questo viaggio nell’intimità di un mondo, il deambulare di Cameron Diaz, il volto spezzato in due di Frank Langella, l’incubo sordocieco del piccolo Sam Oz Stone sono cosi lontani e cosi vicini da un ironico e terribile gioco a dadi del caos da sembrarci l’immagine di un dolore di proporzione famigliare.