Sudore e polvere, occhi pesti e denti rotti, camere d’albergo da due soldi e amori consumati sempre troppo in fretta sono fra gli ingredienti irrinunciabili di qualsiasi pellicola il cinema americano sforni sul mondo del pugilato che, si sa, al pari del vecchio West (e di quello, cinico e alienato dei Coen), non è (mai) un paese per vecchi. Se tralasciamo l’ormai lontanissimo “Io e la boxe” (Buster Keaton, 1926: una delle pochissime varianti che trattano l’argomento in chiave comica), una serie innumerevole di film, da Lassù qualcuno mi ama e Toro scatenato alla saga di Rocky, hanno plasmato in modo indelebile l’immaginario collettivo, creando una mitologia condivisa e ben codificata, sempre sullo sfondo di brucianti cadute e mirabolanti riscatti (con qualche efficace variazione sul tema, come nel caso dell’impavida eroina di Million dollar baby o del vecchio lottatore dalla chioma giallognola di The wrestler). Così, ogni volta che sugli schermi compare una nuova pellicola ambientata fra una scalcinata palestra di provincia e le corde tese del ring, archiviato lo stupore per l’inossidabile fedeltà del cinema americano alla boxe, il gioco più divertente consiste sempre nel rintracciare gli elementi di novità. The fighter, passato fugacemente tra le mani di Darren Aronofsky (ormai il massimo esperto in materia di personaggi autodistruttivi), e infine approdato fra quelle di David O. Russell, già regista di I Heart Huckabees, racconta la storia, romanzata, ma non troppo, di Micky Ward, pugile di professione allenato dal fratello Dicky Eklund, ex campione, rovinato dal crack e dalle cattive compagnie. Siamo agli inizi degli anni ‘90 e la provincia americana è come sempre squallida e sporca, ma Micky, che asfalta strade e si allena, senza troppo successo, con il fratello e con un vecchio poliziotto, non vuole rinunciare al sogno di diventare un campione. Se, come sempre, la strada per la vittoria è lastricata di ombre e sconfitte, a differenza di molti altri boxeur cinematografici (e di quanto il titolo sembrerebbe suggerire), Micky Ward non è mai solo sulla scena, in un film in cui la lotta più dura è sempre contro coloro che ci stanno accanto. The fighter è infatti soprattutto la storia di un rapporto, o meglio di una difficile triangolazione (un triello avrebbe detto Sergio Leone), ai cui vertici ci sono Micky, il fratello e una famiglia d’origine dai tratti quasi mostruosi. Micky e Dicky rappresentano, dagli elementi fisici a quelli caratteriali, gli opposti speculari di un impossibile intero: tanto l’uno è calmo ed equilibrato, vigoroso e mite al tempo stesso, quanto l’altro ha le movenze di una scheggia impazzita e lo sguardo perso e allucinato di chi ha già visitato l’inferno. Eppure, malgrado una lontananza incolmabile, il rapporto simbiotico, dolce e crudele, fra i due personaggi innerva tutta la pellicola, finendo per rappresentare l’elemento portante di una vicenda di dolorosa emancipazione da se stessi e dai propri fantasmi. Al di là dei fratelli si colloca, altro elemento sui generis rispetto ad un mondo solitamente sprizzante di virilità, una famiglia rigidamente matriarcale, al cui vertice vi è una madre-manager premurosa e terribile (una Melissa Leo premiata con l’Oscar, che per certi versi ricorda quella del recente Animal Kingdom, film che analogamente poneva al centro un universo familiare torvo e animalesco) attorno a cui ruotano il marito imbelle e un improbabile branco di figlie. La dolorosa presa di coscienza di Dicky, che vagheggia un futuro ritorno sul ring e vive nel ricordo della sua storica vittoria contro il campione del mondo Sugar Ray Leonard, passa attraverso un documentario trasmesso dalla HBO sulla diffusione del crack in America, che restituisce sullo schermo l’immagine di un individuo ormai disumanizzato e ridotto ad un mucchio d’ossa scarnificate. Il montaggio, a tratti nervoso, restituisce sullo schermo le movenze inquiete di Dicky (forse il vero protagonista, quantomeno per la presenza scenica di un Christian Bale meravigliosamente sopra le righe) in un film che alterna il taglio documentaristico (accentuato dal ruolo del regista e del cameraman della HBO, che Dicky si illude stiano girando un film sulla sua carriera da pugile) a quello drammatico, optando per una scansione cronologica e un’attenzione ai dettagli e alle notazioni socio-economiche. Se non fosse per l’intenso rapporto fra Micky e la fidanzata (la combattiva Charlene, interpretata da Amy Adams) non ci sarebbe molto spazio per i normali sentimenti umani in The fighter, che getta i suoi personaggi in un universo primitivo e destrutturato, da cui emergono legami paranoici e morbosi e riferimenti ossessivi al denaro (Dicky e Alice sembrerebbero disposti a mandare Micky al macello per non perdere i soldi dell’incontro; Alice rimprovera con rabbia ad una delle figlie di non aver colmato il suo debito; Dicky invita il fratello a guardarsi da chi vorrebbe sfruttarlo per fare affari), su uno sfondo di povertà (interiore in primis) che assume risvolti tragici. Micky, non a caso, viene fin dalle prime battute descritto come un uomo buono (“Nessuno ha il cuore che hai tu”, gli viene detto dopo uno scontro sfortunato), unico agnello in un mondo di avvoltoi, costretto a cercare la sua strada a costo di allentare, almeno per un attimo (una rottura completa è impossibile), i legami con l’opprimente guscio dei legami familiari, per salire un’altra volta sul ring. Stavolta con la consapevolezza che, a volte, soltanto prendendo le distanze si può essere meno soli.