Home festival The Girlfriend Experience – di Steven Soderbergh (Usa 2009)

The Girlfriend Experience – di Steven Soderbergh (Usa 2009)

Soderbergh torna a girare con la Red One a 4k filmando in anamorfico, allargando il punto di vista e avvicinandosi agli oggetti tanto da tagliare orizzontalmente i corpi nello spazio, apparentemente indietro nel futuro quasi come in Oshima anno 1960. The Girlfriend Experience è uno strano miracolo della luce, con lo sguardo che la cerca e si adatta ai suoi artifici; lontanissimo dalle idiozie dogmatiche e immerso nei riflessi artificiali della città l’occhio della Red One non impone niente all’inquadratura ma cerca di elaborarla in base alle condizioni che mutano; Soderbergh stesso lo descrive come processo di adattamento; sguardo spalancato sul grado Kelvin della luce diurna che trasforma gli interni con illuminazione ambientale in una fonte di colore inedita e iperrealista. Con una crew ridotta praticamente a zero sviluppa la forma di un racconto intimo e scopico; la prossimità dell’occhio alle forme più sottili di una relazione e la sua gelida autopsia; intima perversità del mercato che mina dall’interno la produzione dell’immagine, è il punto di vista ingordo della città che divora gli abitanti come fossero riflessi, simulacri, immagini già viste; li inghiotte in un labirinto di specchi, li spezzetta nel CMOS di una videocamera di sorveglianza, li osserva dal punto di vista di una Webcam. C’è un rigore documentaristico che affronta la visione con lo scrutare libero del piano fisso e subito dopo lo frammenta con una riappropriazione violenta del punto di vista; come se ossessionato dalla verità Soderbergh sviluppasse in termini più diretti la trasformazione dell’immagine e del mercato che la regola con la stessa violenza politica di Nelson Yu Lik-wai nel misconosciuto e incompreso Plastic City (qui su IE); occhi mostruosi che restituiscono drammaticamente il transito dalla città “reale” nei suoi doppi, tripli “virtuali”. Il Godard di 2 ou 3 choses que je sais d’elle o di Vivre sa vie, che torna fuori in varie circostanze anche come dieta visiva consigliata da Soderbergh a Sasha Grey, è una suggestiva scusa teorica che serve per avvicinarsi e allontanarsi dai soggetti, metterli in relazione con oggetti e punti di vista impossibili, spiarli dalla protezione di un diaframma “naturale”; ossessioni sulle biforcazioni del linguaggio che vengono potenziate e allo stesso tempo disattese dal dispositivo elettronico; non per dire che il rigore di Soderbergh nel farsi scultore di una luce digitale sia minore del bianconero di Raoul Coutard, ma si fa consapevolmente pilotare dai processi di un immaginario artificiale giunto ad un livello di miniaturizzazione e di autonomia produttiva alla portata di ogni occhio. Si tratta di ricombinarlo o di lasciarlo pericolosamente libero. Atterrisce la sensibilità della camera usata da Soderbergh nel catturare la profondità non solo tecnica dello sguardo, un sensore di dimensioni super35mm che i signori della Red stanno ovviamente pubblicizzando come una possibilità di ricondurre e avvicinare l’evoluzione dell’alta definizione all’archeologia dell’occhio cinematografico. Un occhio che ovviamente non è più lo stesso. Se a Soderbergh la Red One serve per gonfiare le possibilità panoramiche dell’immagine, il massimo consentito per avvicinarsi in termini di reveriè fantasmatica alle varie New Wave storiche, questo gli è utile anche per reiventarle consapevolmente con una prospettiva ad altezza Webcam, sovraesponendo di diversi stop l’immagine, bruciandola, oppure lasciandosi andare alle derive di un occhio adattato al modo di vedere dei mobile phones; se pensiamo alla filosofia che sta dietro a molti video low budget immaginati da “amanti del cinema”, videoamatori preoccupati di “mimare” in modo preciso, senza errori (?) l’idea di un cinema che sopravvive dentro alcune mura scolastiche, riproducendo su scala minore un simulacro della stessa macchina produttiva e incassando uno scacco matto politico senza neanche il riscatto dei contenuti, la scelta di Soderbergh è un suggerimento di autonomia e di r-esistenza che andrebbe accolto con un entusiasmo disperato; come in circostanze e con risultati diversi, le scelte di Romero, Mann, Yu-lik-wai, Pedro Costa in lotta con i nuovi formati.

The Girlfriend Experience potrebbe allora esser davvero Godardiano, non come macchina di citazioni, ma nella frammentazione estrema di un punto di vista che cerca disperatamente nello sguardo contemporaneo una possibilità di sopravvivenza del linguaggio: “Volevo dire questa frase con un’idea precisa e non sapevo quale fosse la maniera migliore di esprimere quest’idea. O meglio, lo sapevo ma adesso non lo so più, mentre, appunto, dovrei saperlo” (Nana – Vivre Sa Vie).

Elusivo sul piano della denotazione, quindi, difficilmente raccontabile, come potrebbe dire Bordwell, indaga l’economia di una coppia tenendosene a distanza con un pudore dolorosissimo che coinvolge tutte le sequenze dove Sasha Grey – Chelsea (girl) offre una prestazione sessuale e ex abrupto avvicinandosi intimamente alla presenza di corpi e oggetti con una moltiplicazione ossesssiva del punto di vista più vicino all’iper-realtà perfromativa dell’occhio pornografico. Sarebbe complesso e debordante aprire un capitolo dedicato a Sasha Grey, ci basta in questa sede riprendere un concetto espresso da Soderbergh e legato al suo interesse per la performer Americana; in un film che è anche un gelido osservatore sui meccanismi che regolano il mercato capitalista, la Grey è una macchina celibe assolutamente consapevole; all’interno di regole con una fisiologia ben precisa si è ritagliata una posizione autonoma, con una capacità di gestione dei processi del proprio mercato a cui Soderbergh si è dichiarato interessato in più di un’occasione.

Un interesse reciproco, quello tra il regista di Sex Lies & Videotapes e Sasha Grey; Chelsea è uno strano meta-personaggio, ancora di più dell’altra se stessa in azione sul meta-set preparato ad arte da Dave Navarro per il suo debutto nell’industria del Porno. Nel partecipato ritratto ovale che Soderbergh fa della New York contemporanea, l’unico modo per mantenersi ad una distanza entomologica e conservare la freddezza mortuaria delle luci artificiali, parte dei nostri set naturali, era lavorare in fase di post produzione con un raw capture delle immagini, fottendosene delle operazioni di color correction che preoccupano i palinsesti delle immagini addomesticate.

(Parigi – luglio 2009 – MK2 Beaubourg / Firenze Luglio 2009)

Strane – Illusioni

 

http://www.youtube.com/watch?v=ZhOPsAdm2qo

http://www.youtube.com/watch?v=Y6nhIhJPNtA

 

http://www.girlfriendexperiencefilm.com/

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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