Almeno su un piano mitico, l’idea per The Grandmaster, si sarebbe affacciata per la prima volta nel 1996 mentre Wong Kar Wai stava girando Happy Together in Argentina; lo stimolo è un’immagine di Bruce Lee vista su una pubblicazione, in un paese lontano da quelle origini, per andare oltre la superficie di un’icona assimilata a livello globale. E’ così che il regista hongkonghese approfondisce la figura di Ip man, maestro di arti marziali vissuto nella città di Foshan, formatosi nella Cina Repubblicana dei primi del novecento e futuro maestro dello stesso Lee nel periodo di esilio ad Hong Kong, dove attraverso i suoi insegnamenti trasformerà il Win Chun, lo stile Kung-fu del sud della Cina, in una forma d’arte popolare. Ip Man, in The Gradmaster, ha già quarant’anni e si esibisce al Golden Pavillon, un enorme bordello gestito dai principali maestri di arti marziali, dove lo scontro è quello tra la scuola di Gong (Wang Qingxiang), situata nel Nord della Cina e il Win Chun di Ip man (Tony Leung) , per il quale i due stili potrebbero tranquillamente convivere. Mentre Gong accetta questa possibilità, riconoscendo la prodigiosa abilità di Ip Man, la figlia Gong Er (Zhang Ziyi) ha bisogno di una verifica ulteriore, e lo sfiderà in un combattimento che Wong Kar Wai filma come un sottile gioco gravitazionale tra erotismo e distanza. Gong Er, dopo il combattimento tornerà a casa e trovando il padre morto per mano di un allievo, Ma San (Zhang Jin) cambierà il corso della sua vita. La versione del film editata per le sale, di circa due ore e dieci, colloca in posizione centrale l’occupazione giapponese della seconda metà degli anni trenta, con una contrazione fortissima di occorrenze e personaggi rispetto ad una versione completa di quattro ore di cui Wong Kar Wai avrebbe parlato in tempi recenti; una scelta che da una parte riduce la possibilità che il film, nonostante gli anni trascorsi a mettere insieme un’imponente operazione iconologica e storica, si configuri come un affresco documentale di impianto tradizionale per favorire al contrario una visione filosofica sull’impermanenza della Storia. Come in buona parte del cinema del regista Honkonghese, nonostante la scansione degli eventi, le fratture e la discontinuità permettono l’ingresso in una dimensione orizzontale del tempo. Non tanto lo sguardo sottoposto ad una continua messa in abisso attraverso lo sfaldamento del dispositivo ottico, quindi specchi, rifrazioni, luce e colore, increspature e difetti dell’occhio, ovvero l’immagine come schermo, quella che rappresenta la superficie del cinena del regista HongKonghese, quanto questo stesso schermo che entra in collisione con l’immagine intesa come spazio, contrazione illogica a cui accennavamo parlando di My Blueberry Nights, il film più deludente ma allo stesso tempo più teorico e anti-romantico di Wong Kar Wai (anti-romantico, a dispetto del titolo scelto per l’edizione Italiana). The Grandmaster è un film che riconfigura costantemente la presenza dei corpi rispetto allo spazio, in una dimensione cognitiva che sembra avere la stessa impermanenza del King Hu filosofico, quello di “Pioggia opportuna sulla montagna vuota”, ma in uno scenario dove l’mmagine perde tutte le caratteristiche materiche per diventare traccia frattale. Se la percezione della Storia viene assorbita da un forsennato cinema di corpi, gioco dello sguardo che costruisce e distrugge lo spazio intrecciando le traiettorie di una dimensione curva, basta pensare al formidabile scontro tra Ip Man e Gong Er in equlibrio sulle ringhiere del Golden Pavillon mentre tracciano un percorso Escheriano; il contatto e lo scontro sono semplicemente una manifestazione apparente per Wong Kar Wai, interessato maggiormente alla distanza e al rovesciamento della retorica del Melò; più che nel cinema di Stanley Kwan, fatto ancora di meravigliose apparenze fatasmatiche, quello del collega di Shangai ha una dimensione ormai molecolare. In una delle sequenze più belle di The Grandmaster, un treno infinito scorre dietro (e vorremmo dire, davanti ma anche attraverso) Gong Er e Ma Sen durante uno scontro furioso, traducendo quella presenza/assenza illusionistica del corpo di tutto il cinema di Kung-fu nella sua infinitezza virtuale. The Grandmaster allora è un film, che sin dai sorprendenti titoli di testa, sfalda con un morphing inesorabile quella relazione tra immagine e memoria che con in the mood for love era ancora agganciata alle amnesie Resneis-iane, collocandola in una dimensione post-digitale, dove l’immagine è corpo e il corpo immagine.