giovedì, Dicembre 26, 2024

The Iron Lady di Phyllida Lloyd (Gran Bretagna, 2011)

Una mano vecchia e rugosa afferra una bottiglia di latte al supermercato e paga alla cassa 49 centesimi. Ce ne vuole perché l’operazione giunga a buon fine sotto gli occhi della commessa paziente e dell’impaziente giovane punk alle sue spalle, ma lei, la vecchia Maggie, è tranquilla, magari un po’ stordita, poi, con passo non proprio agile, torna a casa e dice scandalizzata al vecchio Denis che il latte è vergognosamente salito di prezzo. Dopo un po’ capiamo che Denis è morto di tumore da otto anni, lei non si decide a dar via i suoi vestiti, le badanti parlottano tra loro su come fare con la vecchia che esce da sola mentre non dovrebbe, Maggie le spia impotente dalla fessura della porta e i due figli sono ormai lontani quanto basta per farla sentire inutile, proprio ora che potrebbe dedicarsi finalmente a loro e non agli affari di Stato.

Un incipit che nel dare il via al film ci mette sull’avviso, così che sui titoli di coda, dopo centocinque lunghi minuti, il conoscitore del Qohelet potrà far riecheggiare dentro di sé il celebre “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”.

Sì, perchè Margareth Roberts Thatcher, la prima donna capo di governo di una nazione occidentale, la lady di ferro che dichiarava guerre, mandava a morire migliaia di giovani per un pugno di terra arida a migliaia di miglia da Londra (manco fosse Elisabetta I), sfidava senza batter ciglio IRA, sindacati, masse impoverite e inferocite, Camere dei Lord e dei Comuni, mettendo tutti in riga come birilli, sfuggendo ad attentati e uova marce senza mai scomporre un capello della sua bionda e ben cotonata chioma, ebbene, ora la vecchia Maggie,  “come destriero impetuoso, che spesso nel tratto finale vinse ad Olimpia, ora, dalla vecchiaia stremata, riposa …”

Peccato non riposi troppo bene perché l’Alzheimer la sta massacrando e tra visioni, allucinazioni, la memoria che come un’onda l’assale ( manco fosse Napoleone) sia ridotta uno straccio. “Dove piegano le vostre menti, dementi, che sin qui solevano proceder rette?” sembrano chiedersi Phyllida Lloyd  e Abi Morgan alla regia e sceneggiatura, mentre Thomas Newman va giù pesante con la musica, tra alti e bassi tesi a sottolineare al pubblico che ne avesse bisogno quale curva emotiva tenere.

La domanda allora è: qual è il punto di vista del film? La risposta è ardua.

Se voleva essere un biopic non ne ha la consistenza, manca di precisione documentaria, taglio critico, prospettiva storiografica che, pur nel genere biografico (vedi Plutarco, tanto per partire dall’inizio) non deve mancare.

Trattasi, allora, di potente allegoria sul potere e sui suoi nefasti effetti, che prende a modello un/una grande della terra per mostrare “…di che lacrime grondi e di che sangue”? Non si direbbe, non siamo certo dalle parti di Sokurov e neppure di Machiavelli, il giudizio sull’ operato politico è ampiamente sospeso, sembra quasi si voglia glissare sul problema affastellando, come in nota a margine, brevi rievocazioni affidate a filmati d’epoca, in un’amalgama con la fiction peraltro alquanto forzata. Partire dalla vecchiaia della Tatcher, devastata da invalidità progressiva della mente e andare a ritroso nel passato per poi tornare al presente, in una composizione ad anello lungo la quale mettere a fuoco vizi e virtù, vita oggi e vita ieri, la “resistibile” ascesa da figlia di droghiere a ferrigno Capo di Governo euroscettico, poteva essere un buon modo per evitare le secche a rischio di agiografismo di una qualsiasi biografia, cogliendo il doloroso contrappasso inflitto dalla natura ad un’intelligenza indubbiamente lucidissima, messa al servizio di quella personalità forte che le guadagnò, giustamente, il noto epiteto formulare The Iron Lady. Forse queste erano le intenzioni dello staff, il risultato non è, però, alla loro altezza, comunicando piuttosto una fastidiosa sensazione di cedimenti strutturali, analessi e prolessi si susseguono senza posa e senza una mano ferma alla regia che li domini, il bozzettismo è in agguato ogni volta che compare Denis, il marito ( e il bravo Broadbent ne fa le spese) e di lei, la Margareth al tempo della Meryl, cosa resta da dire? Sembra nata per lanciare in corsa la sua interprete verso la notte degli Oscar. Grande Cinema? Grande Storia? Né l’uno né l’altra, a modesto avviso dello spettatore qualsiasi.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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