venerdì, Novembre 22, 2024

The Social Network di David Fincher

E’ una feroce stratificazione di segni la rete di relazioni ordita tra l’occhio di David Fincher e il testo di Aaron Sorkin, un sistema interstiziale fatto  di parole, tracce, apparenza digitale, tempo virtuale, volti all’inferno che cercano il poprio corpo. L’autore di West Wing, lavorando sulla velocità quasi nonsense del dialogo, sembra percorrere un’inquietante terra di confine che spinge l’ossessione per l’incendiaria isteria Hawksiana verso un simulacro di sintesi elettronica, parola separata chirurgicamente dall’azione dei corpi e lanciata nella forma di un doppio oscuro, come fosse un generatore di voce disincarnato. Un’interessante allusione storica e colta alla stagione della commedia Americana Classica che nega l’omaggio attraverso una flagrante sfiducia nella verità del testo; chiunque abbia parlato di Screwball Comedy per applicare un riferimento brutalmente connotativo al ritmo di The Social Network non si è probabilmente reso conto di quanto la scrittura apparentemente orizzontale di Sorkin sia attraversata da derive e sabotaggi da vertigine come i residui immateriali di un Network consensuale “scritto con l’inchiostro” che trapassano la rete virtuale e modificano la percezione dell’esperienza empirico-processuale; mail, log, database, domini fantasma, la privacy e il diritto (d’autore e non solo) che diventa una questione di spazio eterotopo, testi alieni che si mangiano la cronologia del plot e la inabissano in quella perversa visione del tempo nella rete, intrappolato tra un’istantaneità presunta e il segno mortale di tracce visibili inscritte nella pesantezza cronologica dei social bookmarker. Anche per questo, lo sguardo rizomatico di un grande cineasta come David Fincher, riesce a lottare su un piano diverso e quindi di feconda ambiguità, spingendo il suo consueto lavoro sullo spazio e sull’immagine digitale verso un confine che è quello di un’opera estrema e nodale sulla mutazione dell’immagine contemporanea, molto più forte del giochino posturale di A Serbian Film, calco di un immaginario superato in tutta la sua potenza contundente dalle porno-reti criminali condivise e a portata di Network, dislocazione dello sguardo e della responsabilità di cui Assayas (Demonlover) aveva scoperto le piaghe puntando sulla costante confusione tra visibile e invisibile, presenza e vuoto. Ed è la collisione allora che interessa a Fincher, con quest’uso del digitale che da una parte proietta la fotografia di Jeff Cronenweth verso la supremazia del ritratto, con il volto di Jesse Eisenberg tra gelo e intimità, maschera in pena che guarda sempre oltre lo spazio dove si trova, intrappolato in un’indecifrabile smorfia di dolore e cinismo, inadeguatezza e impeto estatico, un James Stewart con le ciabatte e la vestaglia di un Gangster; mentre Fincher plana sugli spazi del campus, piccolo mondo apparentemente connettivo e dai confini indefiniti dove il contrasto visivo tra barriera e visione impudica diventa l’immagine spietata sui confini mutogeni dello spazio privato, una concidenza tra verità e falsificazione che replica l’esperienza delle reti sociali minandone proprio le conseguenze positivamente post-identitarie in una riproposizione spietata di quel “male gaze” con cui, in contesti diversi, Mulvey, Creed, Kristeva, hanno provato a scardinare le certezze degli studi tradizionali sul cinema, raccontandoci di “corpi” intrappolati e sguardi ideologicamente orientati. Fincher estremizza la misoginia dei protagonisti con un ghigno cinico, sorprendendo i creatori del Network più conosciuto del mondo in un sintagma Escheriano capace di spazzar via l’autismo di Christopher Nolan con un semplice gesto di libertà cinematografica, quella che coglie Zuckerberg distratto dalla pioggia, trafitto dalle parole di Erica Albright, l’unica che resiste alla trappola della rete sociale, rimanendo fuori dal gioco e negandone semplicemente l’esistenza, e ancora imprigionando l’architetto nel gesto automatico e apparentemente spontaneo che regola il suo mondo. E ancora, in questa arena dalla grandezza di proporzioni universitarie, familiari, Fincher insinua la formazione di un’immagine discontinua, perversa, un reale fatto di brandelli dall’origine incerta; perchè cos’è quel pezzo incredibile e inquietante di cinema mostruoso e mutante nascosto nella sequenza della regata, fatta di miniaturizzazioni, soggettivizzazione degli oggetti (Panic Room!), CGI, dove è la realtà stessa dei footage e delle immagini ad essere messa in discussione, e cosa sono i gemelli Winklevoss, con Cameron interpretato da Armie Hammer e Tyler ricreato con le membra di Josh Pence in prestito e la testa dello stesso Hammer appiccicata in vetta, se non alcuni dei so/egni perversi di Facebook?


Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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