Il cinema è dunque, come nozione primordiale e archetipa, un continuo e infinito pianosequenza
Pier Paolo Pasolini
Quando la colossale storming visionaria di Douglas Trumbull si innesta dopo i primi venti minuti dominati dalla fotografia di Emmanuel Lubezki (con Malick da The New World e ancora insieme a lui nel prossimo progetto in lavorazione), The Tree of life si incunea in un viaggio percettivo cosi complesso da coinvolgere più storie del cinema.
È come se la visione aerea di Martin Sheen alla fine di Badlands, sguardo già lanciato oltre l’orizzonte del racconto, si liberasse in una forma di cinema espanso alla ricerca della luce, a caccia di una rifrazione, quella in transito dal 35mm all’occhio della Red One con un lavoro sui contorni luminosi che cambia spesso dimensioni e formato nel contrasto tra la magniloquenza e la portabilità dell’osservazione cosi vicina a volti e corpi, ma anche il riflesso vitale e arcaico che possiede la virtualizzazione dello sguardo nei mondi digitali, elaborati con lo stesso stupore filosofico.
L’ultimo lavoro di Terrence Malick, in questo senso, contiene mille e più film aperti, e cominciando davvero dalla fine de “La Rabbia Giovane”, sembra dibattersi tra le dimensioni di un cinema colossale e la prossimità di un racconto famigliare, cosi intimo da tendere alla forma pulviscolare più che a quella del documento.
E’ la stessa biforcazione dell’immagine che si manifesta in molti dei film di Eastwood (e di cui abbiamo parlato recentemente dopo la visione di Hereafter), quella che dovrebbe salvarci dal considerare il cinema di questi due grandi cineasti come esempi di solida classicità, quando al contrario, per sfruttare un concetto caro a Pasolini, il materiale fisico e sensoriale degli apparati audiovisivi, più che a causa di un disinnesco palese di provenienza metacinematografica, diventa nel (loro) cinema corpo di una lingua spazio-temporale complessa che altrimenti sarebbe “puramente astratta o spirituale”.
Ed è probabilmente su questa semplice biforcazione (filmare l’invisibile) che critica e pubblico si spaccano in un’incondizionata reazione di odio-amore nei confronti di una deriva cosi libera dell’apparato cine-mnemonico, anche nella frizione palese di due approcci produttivi in collisione, da non rendersi forse conto di essere al centro di un processo di scambio tra una “lingua” cinematografica primordiale (quella dei sogni, della memoria, degli epifenomeni di luce e riflessi) e il tentativo di restituirle libertà attraverso una frammentazione del punto di vista vicino al movimento di un piano sequenza senza fine, certamente sbilanciato nel tentativo di farsi paradigmatico e improvvisamente piccolo, minimo, vicino ad uno stato di assorbimento dell’immagine a livello contemplativo, ma forse anche per questo palpitante e vivissimo nel trasformare l’esperienza cinematografica per come la conosciamo.
Senso di perdita di una centralità che ha colto di sorpresa Malick stesso nel continuo ripensare ad un film in grado di assumere forme diverse durante la visione, se confrontato con il buono Sucker Punch (di cui abbiamo parlato approfonditamente da questa parte) il viaggio Malickiano ci libera da quell’ossessione palese per la reversibilità prospettica del film di Snyder, la stessa che rende ingombrante e metavisiva l’architettura di gingillini come Echochrome, il puzzle game sviluppato da Japan Studio per Playstation 3, dove alla fine i movimenti di entrata e uscita dai mondi riducono la portata di un’esperimento comunque molto interessante ad una visione circoscritta agli incubi identitari della cultura post-rave.
L’esperienza di The Tree of life è al contrario un viaggio interstiziale tra le pieghe del montaggio che muta in un’esperienza totalmente libera, trascinata com’è da una continua esondazione dalla memoria cinema nella potente oscillazione tra il corpo collettivo di un immaginario che è Hollywoodiano, Spielberghiano, a tratti tra Disney e la fiction scientifica di Painlevè, ma anche una metastasi visionaria minimale che riconduce alla memoria degli anni ’70, alla crudeltà delle estati di Frank Perry o della stessa adolescenza Malickiana, verso un cinema del riflesso che senza più alcun controllo supera l’alibi del frammento diaristico a favore di un’esperienza libera del viaggio.
Più vicini a quell’aderenza aptica al primo piano che attraversa l’Inland Empire Lynchiano, i frammenti sensoriali su corpi e volti scrutati e inseguiti da Malick in un continuo conflitto tra luce e suono, aria e azzeramento dell’immagine, sono quanto di più lontano dalla sconfitta politica dell’immaginario cinefilo, quella scatolina giocattolo che si può ancora aprire e chiudere, e che non ferisce più.