La sequenza dei titoli che introduce The Ward, l’ultimo film diretto da John Carpenter, ha una straordinaria forza ipnotica, realizzata con l’accumulo di una documentazione fotografica sulla follia, si sfalda davanti ai nostri occhi come se fosse uno degli arabeschi ottici ideati da Saul bass. Non può non venire in mente lo strappo sul manifesto che incollato sulla parete di un vicolo, pubblicizza l’ultimo romanzo di Sutter Cane; è un lembo o un diaframma di vetro, che se sfondato rivela la palpebra rovesciata di un universo cognitivo complesso, un passaggio che in tutto il cinema di Carpenter mette in relazione materia e antimateria, corpi e memoria, avvitamento del tempo e persistenza dello spazio rispetto ai fenomeni transitori dell’esperienza.
Qual è la prima cosa che Kristen ricorda dopo la sua reclusione? Il fuoco di una casa incendiata, immagine che sta a metà tra la flagranza documentale e l’evanescenza del ricordo, tanto che Carpenter la utilizzerà più volte nel corso del film con la forza di un montaggio che troppe volte è stato considerato come una funzione dalle qualità squisitamente ritmiche e che in The Ward, più che in altri film del maestro di Carthage mostra in realtà due lati dell’occhio con un’ossessività quasi Cormaniana, la stessa che Lynch innesca con i car crash e le memorie incendiarie di Cuore Selvaggio.
Spiace che in The Ward sia stata rilevata con insistenza dalla critica più fanzinara la superficie di Genere o la supposta classicità dell’ordito, in una caccia all’evoluzione del cinema Horror che esiste solo nella testa di un brandello del mercato alternativo, in verità impermeabile quanto quello mainstream; se quello che si cerca nel ritorno di Carpenter è questo, forme del desiderio a parte, non si può rimanerne che delusi o depistati dalla semplice radicalità di un cinema capace di “spaventare” in uno spazio molto lontano da quello di una dimensione nostalgica.
Il testo dalle suggestioni Fulleriane e la vecchia scuola Horror sono un terreno che con rigore assoluto servono a Carpenter per una ricerca sulla non linearità del tempo, la semplicità del suo involucro mette The Ward, cosi come era stato per Ghosts of Mars, nelle condizioni di svilupparsi come un testo stimolante e incongruo, una mina piazzata nel cuore del racconto e che sfrutta in modo del tutto Carpenteriano la forma basica dello script messo insieme dai giovani fratelli Rasmussen per un saggio sull’illusione percettiva tra i più sofferti del suo cinema.
The Ward è infestato da specchi, memorie infrante come vetri, immagini che promanano dal futuro, deturnamenti percettivi, ma a differenza della possente esuberanza teorica di un film, per esempio, come Prince of Darkness, assorbe tutte quelle suggestioni in un’arena mentale e intima dalla sostanza quasi crepuscolare; la presenza di Annie ne è un esempio, creatura dolente che rivela a poco a poco i segni di un calvario interiore fino a perire trafitta con un’ascia in pieno petto con un grido dalla qualità perturbante e famigliare, porta su di se tutti i segni inquietanti di un’idea di male a cui Carpenter ha sempre sovrapposto, sotto le mentite spoglie di una sincera passione Pulp, una visione terribile della Storia e del Tempo. Qui la ricerca filosofica a un certo punto fa franare l’impalcatura più esplicitamente politica, andandone a cercare le radici dentro un’immagine potentissima e sorprendentemente vicina e distante d/al suo Cinema, che con un pugno in faccia assorbe questo piccolo grande film continuamente ri-visto a rovescio, all’interno di un buco nero interiore.