Il cinema stolido di Darren Aronofsky vive nell’opacità delle superfici preferendo il meccanismo di piccola logica al rischio della visione; nell’ultimo The Wrestler la sua idea di cinema salta in aria, assorbita dal corpo “maciullato” di un Mickey Rourke immenso nel mettere in scena se stesso attraverso cicatrici, ferite, mutazioni esogene e una performance davvero commovente, quella di Randy “The Ram” Robinson, Wrestler in declino, fantasma di carne degli anni ’80 che gravita tra arene scassate e un night club dove incontra Cassidy, lapdancer con un corpo segnato dalla memoria e dal tempo interpretata da una Marisa Tomei che scommette su se stessa con la stessa dedizione di Rourke.
Mentre in un pub passa una traccia dei Guns N’ Roses, Randy rimpiange tutta quella musica sudicia e muscolare degli anni ’80: “quel frocetto di Cobain ha rovinato tutto”; è un’immagine crepuscolare, la forza di un’anima che si manifesta attraverso il corpo e che non cede all’assenza di serotonina degli anni ’90 rovesciando come un guanto l’escatologia terroristica della passione di Cristo di Mel Gibson, che Cassidy cita quando accarezza le cicatrici di Randy. La passione, per Randy/Rourke è un tormento della carne, un taglio e una ferita continua che pulsa tra dolore e gioco, tra la mutilazione e la gioia della scelta. E’ una vera e propria performance, quella di Mickey Rourke la cui “verità” fa impallidire qualsiasi alfiere del martirio colto à la STELARC e che sfiora un livello altissimo di conoscenza attraverso la forza dei segni e delle ecchimosi.
La lotta tra Aronofsky e Rourke è impari, il primo non riesce ad aggiungere granchè cercando di insistere su un corpo che diventa una macchina del senso potentissima; una sequenza illuminante: Randy è allo specchio ed esamina una spaccatura sul suo torace, cicatrice riflessa direttamente sui nostri volti, l’occhio di Aronofsky non sa che fare, è impacciato e cerca di avvicinarsi con un doppio zoom che non cambia la nostra percezione.
Il corpo di Rourke, come quello di Jagger nell’ultimo film di Scorsese sugli Stones, a un certo punto eccede la regia, se ne fotte dell’autore e libera un’esibizione che ha la pesantezza e allo stesso tempo la libertà di tutta una carriera. L’uscita dal ring nell’inquadratura finale è un’uscita dalla macchina cinema Aronofskyana, unica ellisse possibile di un’esperienza che dal corpo e dalla persistenza sulla carne, oltrepassa lo schermo.