Home 3D la terza dimensione This is it – di Kenny ortega

This is it – di Kenny ortega

E’ un’immagine del transito quella che Kenny Ortega ha ricavato dalle ore di girato registrate durante le prove di This is it, il tour che avrebbe dovuto restituire Michael Jackson al suo pubblico, messo in scena in forma tecnica e preparatoria fino a pochi giorni dalla sua morte sul palco dell’Arena O2 di Londra, spazio di confine tra il corpo e la sua dissoluzione nel concatenarsi dei set virtuali. Ancorato ad un’altra dimensione, Jackson è filmato frontalmente e con pochi altri take come fosse un corpo estraneo in una macchina concepita per vomitare simulacri; una frattura dolorosa con quell’inesorabile vampirizzazione prevista in anni diversi da John Landis e George Lucas. Non solo il ritornante di Thriller, ma anche l’immersione nella realtà ologrammatica di Captain Eco, il corto prodotto da Lucas nel 1986, esperimento di 3D immersivo proposto tra le attrazioni di Disneyworld. Quella collisione tra il corpo di Jackson e brandelli di science fiction anni ’50, strane repliche di Tobor, schegge di cinema classico, si ripete nel lavoro massivo in green screen che avrebbe dovuto rappresentare l’ossatura dell’ultimo show della pop star americana. Jackson, nel possibile inizio dello show,  esce dall’armatura di Mr Light, un transformer di luce digitale con una corazza virtuale fatta di schermi e riflessi, parte del corpo virtuale di Michael riprodotto sul manifesto del film, primo dei tanti attraversamenti dello spazio performativo verso una dimensione frattale. This is it, il film, è allora uno sguardo sulla spaccatura senza suture di due spazi eterodossi; i praticabili dell’O2 sono la gabbia scheletrica e nuda dove il corpo non morto di Jackson ancora si dibatte tra fragilità e presenza, un mondo a parte che si porta dietro i ballerini, le coriste, tutto lo staff tecnico nella metamorfosi di una dimensione consensuale, sintesi di due mondi che si contraggono l’uno nell’altro. Si ha la sensazione, mentre i classici di Jackson vengono eseguiti uno dietro l’altro, che i vari Men in the mirror manifestino un’incombenza  così potente da rendere angusto e insostenibile lo spazio reale del palco, quasi fosse uno stato di passaggio, un after-life sospeso tra due mondi. La regia di Ortega è una voce lontana, un tentativo di rendere questa macchina celibe più tollerabile, se non altro per negare a se stessi di essere già l’interno e l’esterno di un organismo complesso.

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