Ci voleva la distanza smisurata dello spazio Americano, probabilmente più immaginato (come dice Sofia Bonicalzi nella sua recensione) che vissuto, per rivelare in modo scabroso le contraddizioni del cinema di Sorrentino; è una libertà naturale dell’occhio che forza solo in parte il regista Napoletano a ridurre l’ingombrante presenza dei movimenti di macchina e ad affidarsi alla sempre notevole fotografia di Luca Bigazzi come attrattore di senso, un occhio che da solo è in grado di arricchire il punto di vista, uscendo quasi dal quadro, con quel formidabile uso del colore che si spegne mano a mano allontanandosi dal centro dell’inquadratura; è una prospettiva (nel bene e nel male) quasi “lomografica”, uno sguardo che crea un tunnel e cerca disperatamente di metter tutto dentro, anche l’infinito.
Ecco che dall’inesorabile circo di maschere Sorrentiniane, al di là del talento di Bigazzi, si salvano solo i volti di Frances McDormand e di Harry Dean Stanton, veri corpi alieni ed ec-centrici di This must be the place, mentre Sean Penn, pur nella sua incredibile capacità di disinnescare il simulacro, diventa fantasma tra i fantasmi di quest’universo oleografico anni ’80, già superato nel passato da quella frizione formidabile tra pop e documento che erano le True Stories di David Byrne, basta pensare alla sequenza che nel film diretto dal musicista americano coinvolge la St. Thomas Aquinas Elementary School nell’esecuzione di “Hey Now”, numero musicale che emerge dal deserto per poi scomparire nuovamente.
This must be the place non riesce a farsi carico di questo “displacement”, al contrario nega allo spettatore la possibilità di vivere lo straniamento marcando visivamente il contrasto tra un’America sognata e uno spazio, forse vissuto altrove. Sorrentino deve farci sentire la sua presenza attraverso il peso dei simboli e l’azzeramento delle tracce in una grafia dei movimenti che non è quasi mai segno, ma uno scacco della visione; “this must be THE place”