Bor (Serbia). Due giovani skater (Stefan Đorđević e Marko “Toda” Todorović) si divertono a fare jackass movies, clip in cui si esibiscono in skate o in generale in situazioni di pericolo. Sono video che mostrano una fascinazione per il rischio e per il superamento dei limiti fisici, con momenti di puro masochismo (buchi nella pelle, frustate sulla schiena, palle scagliate sui genitali). Questa non è la trama del film, è la sua reale genesi. I video riscuotono un certo successo su Youtube, tanto che verranno raccolti in un documentario (Crap – Pain is Empty). Nikola Ležaić, regista serbo anch’esso di Bor, se ne innamora, e decide di farne un lungometraggio “di finzione”. Virgolette d’obbligo, perché Tilva Roš, sorta di affresco non-giudicante di una cittadina serba e della sua adolescenza “adrenalinodipendente”, è un continuo gioco tra realtà e finzione, mai autocompiaciuto. Alle scene di fiction (in cui Stefan e Toda interpretano se stessi) si alternano senza soluzione di continuità filmati lo-fi, all’estetica cinematografica si alterna l’estetica streaming, alle persone si alternano i personaggi, agli eventi realmente accaduti altri inventati o deformati (come l’evidente parossismo dell’immenso truck alla manifestazione, ma cos’è il cinema se non una rappresentazione distorta della realtà?). La realtà politico-sociale (la rivolta dei minatori, i problemi di lavoro di Toda) è coraggiosamente appiattita a ricordo, messa sullo sfondo, una giostra sulla quale i protagonisti fanno letteralmente un giro, tra una “skateata” e un blitz vandalico al supermarket. Ed è proprio nell’incredibile piano-sequenza del supermarket che qualcosa si scardina, quando il commesso dice a Toda “qui non si può entrare con gli skate, fuori!” ed egli risponderà: “non si preoccupi, è solo per una scena”, con conseguente sussulto del pubblico. Corto circuito totale: come in un Amarcord 2.0 Ležaić non solo distrugge lo storyline, ma persino la finzionalità della sua opera, andando a frugare nei ricordi altrui per offrirci un documentario semi-vero, un film semi-vero, una testimonianza semi-vera di personaggi semi-veri, a cui comunque noi crediamo come in un gioco a cui accettiamo di giocare. Lenti movimenti di macchina, complicati piani sequenza e long take; bellissimo quello con il ragazzo ubriaco che piangendo dice agli altri cosa vuol dire per lui fare skate, un close-up che spezza ritmicamente la situazione goliardica della sua festa di compleanno, ma anche narrativamente ed esteticamente (la scena è ripresa con una handycam), emergendo in tutta la sua improvvisa e improvvisa drammaticità. Premiato al Festival del cinema dell’Estoril e al Festival di Sarajevo e passato anche dal Trieste Film Festival 2011, Tilva Roš è un film che paga un forte tributo a Paranoid Park di Gus Van Sant (nei temi trattati ma ancor più nello stile e nello sguardo affettato verso la gioventù che mostra), ma che resta, oltreché uno strabiliante spaccato, uno dei più brillanti esempi dei modi in cui i new media possano fare il loro ingresso nel cinema contemporaneo non solo come riferimento storico-culturale, ma anche come parte integrante del discorso filmico. Se il cinema si vuole arte totale, deve sapersi confrontare con tutto.