Grazie a Teodora Distribuzione, il 30 maggio torna nelle sale To Be Or Not to Be, omaggio doveroso al “ tocco di Lubitsch” e ad un capolavoro di coraggiosa e contagiosa allegria, capace di sopravvivere alla realtà che fa da sfondo al racconto.
Nel 1996 il film era stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti e nel 2000 l’American Film Institute lo aveva inserito al 49º posto della classifica delle cento migliori commedie americane di tutti i tempi.
Girato nel 1941, mentre gli americani dichiaravano guerra alle forze dell’Asse, dopo l’attacco di Pearl Harbor, To Be Or Not to Be è ambientato nella Varsavia occupata dalle truppe naziste.
Julia Heron e Vincent Korda, scenografi, ricostruiscono gli esterni con cura calligrafica, la fotografia di Rudolph Maté, lunga esperienza al seguito di Murnau, Dreyer, Hitchcock e Clair, fornisce chiavi di lettura a quei “frammenti di un universo riconoscibile” che Lubitsch abilmente manipola, nella zona franca che sta fra l’immaginario e il vero. Un cast in stato di grazia dà ritmo perfetto al congegno narrativo travolgente, fatto di equivoci e travestimenti, realtà e illusione, gioco prismatico di specchi che frantuma in mille pezzi un mondo uscito dai cardini.
La storia è quella di un gruppo di attori polacchi che beffa le SS e fugge verso la libertà, mettendo in scena un ingegnoso imbroglio e servendosi della somiglianza con Hitler di uno di loro, Bronski.
Siamo nel 1939, vigilia dell’invasione della Polonia. A Varsavia va in scena Amleto e l’unico problema di Joseph Tura (Jack Benny) è quel maledetto spettatore che lascia la sala proprio mentre lui intona il famoso monologo.
La moglie Maria (Carole Lombard), prima attrice, lo ama, ma i fiori del fascinoso tenente Sobinski (Robert Stack) non possono essere ignorati, ed è proprio lui che lascia la platea per correre da lei in camerino. Tra porte che si aprono e si chiudono, andirivieni di marito, tenente, governante, capocomico e attori vari, equivoci e gag, si respira il clima della slapstick comedy quando, tragica, piomba la notizia: è la guerra.
Piovono bombe, si corre nei rifugi, Varsavia sta morendo, ma non c’è spazio per malinconie, in Lubitsch. Si vuol vivere, si vuol essere, annullare il non essere imposto al mondo dal genio del male, e si può, l’arma del comico sgancia più bombe di un cacciabombardiere. Il paradosso della demenzialità vera, quella della storia, è svelato dalla messa in scena della demenzialità apparente, quella del teatro. La troupe al completo, a supporto della missione segreta del tenente Stobinski della RAF polacca, diventa un cardine della Resistenza, e fra stratagemmi e improvvisazioni necessarie risolverà le situazioni più complicate fino alla salvezza finale.
La sottigliezza geniale dell’operazione di Lubitsch fa sorridere, oggi, delle critiche rivolte al film, all’epoca, di trattare con mano troppo leggera un problema così grave.
Ma Lubitsch vide quello che alla propaganda ufficiale sfuggiva: “I miei nazisti sono diversi, hanno passato questo stadio. Le sevizie e le torture sono diventate la loro routine quotidiana.”
“Processo burocratico di distruzione”, così lo storico Raul Hilberg di Burlington, Stati Uniti, ha definito la Shoah. Cinema e critica storica convergono nell’analisi.