Una lezione sull’arte dell’interpretazione quella regalata da Toni Servillo, intervenuto a Fiesole sabato 30 Luglio per ritirare il premio ai Maestri del Cinema, giunto alla sua 47ma edizione. L’incontro è stato un momento di riflessione per tutti coloro che amano le arti performative e che anche vivendole al di fuori, desiderano capirle dal loro interno. L’attore presenzia all’incontro con il pubblico insieme alla collega Anna Bonaiuto, a Marco Bellocchio con il quale ha appena terminato le riprese de La bella addormentata, e ai critici Antonio Caprara e Davide Magrelli
Il Sindaco d Fiesole Fabio Incatasciato ricorda in apertura Fernando Farulli, pittore e assessore alla cultura sul finire degli anni 60 che dette il via all’Estate Fiesolana ed alle manifestazioni ad essa legate, insieme al primo dei Maestri a ricevere il riconoscimento: Luchino Visconti.
Si ricorda anche l’intervento shock fatto da un altro premiato, Harold Pinter, nel settembre del 2011 alla vigilia dell’attentato alle Torri Gemelle e le premiazioni più recenti di Bertolucci, Francesco Rosi, Gianni Amelio e dei fratelli Dardenne. Tra gli altri registi premiati nelle passate edizioni, Nanni Moretti, Spike Lee, Bertrand Tavernier.
Introduce Enrico Magrelli parlando della peculiarità di Servillo nel panorama italiano: «Con la mia presenza questa sera voglio testimoniare l’affetto e anche l’attenzione che ho da sempre nei confronti di Toni che, con un gioco di parole mi piace definire “l’attore in più” del cinema italiano. Questo genere di artisti nascono quando il terreno è fertile e a questo proposito penso ad un film come Morte di un matematico napoletano nel quale si vede un’intera generazione di attori che mette a fuoco un modo nuovo di raccontare e di stare in scena, modulando continuamente pose nuove.»
Antonio Caprara: «Questa di Fiesole è una manifestazione diversa dove non c‘è soltanto la passerella, ma bensì un’idea di cinema; questo perché è un premio importante che da voce ai protagonisti. La natura del rapporto tra attore e spettatore è profondamente erotica. Al contrario di quello che pensava Freud, ovvero che l’arte fosse una sublimazione dell’atto sessuale io la penso come il protagonista di Lolita di Nabokov, ovvero, secondo me, il sesso è l’ancella dell’esperienza artistica. Trovo che gli attori che entrano nel nostro immaginario siano portatori di una grandissima tensione erotica quando questa significa un’esplorazione linguistica estrema e lo specchio di una certa follia senza la quale siamo tutti delle fotocopie della realtà. Pensiamo ad attori come Mastroianni e Volontè che hanno sfidato e stimolato con le loro interpretazioni questa forza che giace dentro di noi. Toni Servillo è riuscito inoltre a sfidare anche il concetto di napoletaneità che sa essere una brutta bestia e un grande limite. Alle volte ti fa perdere le coordinate costruendoti attorno una gabbia da clown. La forza di Toni è di dare alla napoletaneità questa sorta di tradizione che diventa nuova ogni volta.»
Toni Servillo: «Se leggo la lista di chi mi ha preceduto mi tremano le gambe. Perché si tratta di autori fondamentali nel bagaglio culturale della mia generazione. Mi auguro che il mio caso, ovvero il premio conferito per la prima volta ad un attore, sia auspicio per un nuovo corso. Marlon Brando diceva che il cinema è dei registi, il teatro degli attori e la televisione dei residui, definendo così, causticamente, discipline e responsabilità. Anche io sono profondamente convinto che il cinema sia dei registi, ma trovo anche che siano molti i casi nei quali un attore ha illuminato delle zone con la sua presenza, o magari anche solo con il suo volto ancora prima che con il suo talento. Come si fa a non sovrapporre Giordano Bruno a Volontè o Il bell’Antonio a Mastroianni?
Io appartengo ad una generazione che ha condiviso la passione per il fare un teatro in forma indipendente, nella quale non solo si controlla ciò che si dice e come lo si dice, ma si prova anche a controllare le forme in cui lo si distribuisce. Noi continuiamo a fare questo teatro in maniera militante, non nel senso ideologico, ma definendo con questo termine una passione quotidiana, qualcosa per la quale spendi una vita.
Sia io che Anna Bonaiuto che è qui con me non consideriamo il teatro come un’anticamera per arrivare a qualcosa di meglio, ma del teatro conosciamo le asprezze, le serate che vanno male e che generano una frustrazione che ti costringe a rimetterti in gioco e a ricominciare sempre da capo. Con Morte di un matematico napoletano, che ha citato Magrelli, noi tutti cominciavamo una nuova esperienza di cinema, ma di un cinema indipendente, parallela al nostro modo di concepire e vivere il teatro. E queste esperienze hanno continuato ad intrecciarsi, ad esempio L’uomo in più di Paolo Sorrentino che vedrete questa sera è stato prodotto da Teatri Uniti.
Se quindi l’autore primo di un film è un regista, quello di uno spettacolo teatrale è colui che ha scritto il testo che si mette in scena, nei confronti del quale io ho sempre un atteggiamento servile, ovvero teso a servire il testo che amo, e a metterlo in uno stato di comunicazione condivisa con gli spettatori in platea. Per non lasciare quella di Marlon Brando una semplice battuta dico che a teatro l’attore diventa nel corso delle recite colui che interroga di volta in volta il testo facendolo diventare creazione. È vero, non è l’attore che consegna l’opera finita, ma è lui stesso ad essere costantemente all’opera, facendo coincidere il suo lavoro con l’atto stesso.
Penso quindi che i registi di cinema che si sono trovati a lavorare con me abbiano trovato in questa mia formazione una sponda. Forse è questo che fa si che un premio così prestigioso sposti l’asticella dai grandi maestri della regia a un attore”
Servillo ricorda Theo Anghelopulos morto lo scorso gennaio proprio sul set di L’altro mare del quale è protagonista: «Ci stava dando delle indicazioni ed è stato investito mentre attraversava una strada, una tangenziale nel Pireo dove si svolgevano le riprese. Andare sul suo set era un po’ come entrare in una bottega, questo caratterizzava la dimensione del suo lavoro. Se la luce non gli piaceva, non girava e ne pagava le conseguenze. Aveva la fede per creare immagini che non rappresentassero un consolatorio rispecchiamento, ma anzi, che turbassero. Sono sempre meno le persone che fanno il cinema con questa tensione»
A proposito della napoletanità Servillo ricorda la figura di Antonio Petito (1822-1876) grande maschera della Commedia dell’Arte nel ruolo di Pulcinella: «La sua morte fu degna di Moliere: molto amato ma anche molto invidiato era accusato di essere valido solo nel repertorio comico e morì in scena: la leggenda vuole che un attimo prima di essere colto da un malore fatale si sia girato verso il pubblico dicendo “Vedite? Pur’io saccio fa un traggico!”»
Anna Bonaiuto partner di molte esperienze cinematografiche e teatrali: «Non sono molti gli attori che hanno il coraggio di Toni di mettersi davanti alle nuove esperienze partendo spesso da zero. Alle volte in tournè viene preso anche un po’ in giro proprio per la sua dedizione totale, ma per lui il lavoro è una continua crescita e un continuo conflitto. Lui ha il piacere di recitare, ed è un piacere lavorare con lui e vedere la vita che scatta come una scintilla sul palcoscenico ogni sera.»
Marco Bellocchio: «Io non sono mai stato un attore, ma forse avrei voluto esserlo. Ripenso a quanto ha detto prima Toni sulla formazione; noi registi ci troviamo molto spesso a lavorare con attori improvvisati, o non attori, o attori che tu scegli per l’unico ruolo che sanno fare. Un vero attore dovrebbe aspirare a fare tanti ruoli, invece quando ad esempio esce dalla televisione spesso ha una gamma molto ridotta. Da questo punto di vista io ho una grande fascinazione verso il teatro dove la vita è messa in scena ogni sera sempre diversa. In questa esperienza che abbiamo fatto insieme c’è stata una buona collaborazione. Il suo personaggio ha costituito per lui una ricerca nuova, per la quale Toni è stato capace di catturare tutte le sfumature in un tempo molto ridotto rispetto a quello che mette a disposizione il teatro. Una esperienza straordinaria vederlo lavorare.»
Servillo ha poi continuato parlando di De Filippo: «Eduardo diceva che fuori dal palcoscenico si sentiva uno sfollato e cioè uno che non ha più niente. Credo che questa affermazione sia da interpretare pensando alla folla di personaggi che lui ha creato proprio sul palcoscenico, non nel senso dell’ecletticità, ma come creatore di altri sè, e non di altro da sè. Se si articola altro da sè si rischia di ripetere all’infinito la stessa maschera che diventa un sè infinito. Nell’articolare altri sè invece si dà il via in questo mestiere ad un percorso di conoscenza che serve al teatro per diventare quello strumento che l’uomo si è dato per sentirsi umano. Il teatro per definizione marca l’uomo in quanto limite. Per un attore donarsi e comunicare deve servire a migliorarsi e a riconoscersi in ciò che è diverso da lui. Alle volte mi sono trovato a sconsigliare dei giovani che volevano intraprendere la strada del teatro, magari perché notavo che partivano da una timidezza impossibile, mentre ci vuole sfacciataggine nell’usare sé stessi La componente erotica di cui parlava Caprara sta in parte nel gioco, di cui l’attore è testimone, di farsi abusare dal regista e di donarsi al pubblico.
Ha ragione Anna quando dice che io rompo il cazzo ai colleghi quando siamo in tournè » ride, «ma per me non esiste altro modo di fare questo mestiere. Bergman, rispetto al quale io mi sento una cimice, ne La lanterna magica dice che ciò che lo ha mosso nella sua carriera non sono stati l’ambizione, la conoscenza o il divertimento, ma un’ossessione continua legata alle forme ed alla speculazione sul proprio mestiere. Io sento quando faccio cinema di essere usato da un regista, specie quando un regista comunica attraverso di te per più di una volta, come mi succede con Paolo Sorrentino, con il quale mi accingo a girare il quarto film. L’uno tiene viva l’immaginazione dell’altro. »
La conclusione per l’attore napoletano vincitore di 3 David di Donatello è affidata ad una considerazione sulla difficoltà del mestiere, riflettendo sull’abnegazione necessaria per intraprendere questo tipo di strada: «Ricordo me stesso circa 18 anni fa in teatro di Viterbo, seduto in un camerino nel mio costume e truccato; in sala non c’era neanche uno spettatore. Il mestiere dell’attore è una lotta, nessuno ti da niente. Se oggi sono qua, anche per farmi conoscere meglio e per raccontarmi questo lo devo dire. Gli attori sono persone che lottano e che, soprattutto di questi tempi, conoscono l’amarezza di sentirsi dire dei no. La parola chiave è rinuncia, ovvero rinunciare ad altre ipotesi di vita per fare questo.»