E’ una ferita aperta il nuovo Coppola, cosi vicino al film più recente di un altro allievo di Corman, Road to nowhere di Monte Hellman, è un’apparente storia del cinema osservata dal futuro che prende letteralmente fuoco con le tracce e i fantasmi di un passato intimo e immaginifico, cosi da tornare alle origini informali di una pre-histoire. Hall Baltimore occupa uno spazio di confine che risiede tra l’identità di uno scrittore senza lettori, il corpo ritornante di Val Kilmer e la dimensione eterotopa della sovra-scrittura digitale, ovvero quella di una storia che formatasi davanti ad un notebook, può esser modificata in qualsiasi istante, con la cancellazione di ogni traccia precedente e lasciando indietro il peso definitivo del racconto, sigillato in una pila di testi dimenticati in libreria. E’ probabile che Coppola abbia pensato a questo quando ha progettato l’idea di un film metamorfico, disponendone la mutazione in base al sentire degli spettatori, un principio d’incertezza che si riflette nel prisma temporale di sette orologi che segnano un’ora diversa e che avvitano cinema e vita in una personale e dolorosa rilettura di quella polivisione che il regista americano aveva cercato di far sua nella bidimensionalità già stereoscopica del Napoleon di Abel Gance, perchè del 3D con gli occhiali a Coppola importa ben poco, sogna già la possibilità di donare profondità ad una versione personale di quei viraggi, senza bisogno di un’ennesima cornice. Confessando di aver visto buona parte di Avatar togliendosi le lenti, in Twixt ci suggerisce quando indossarle per mostrarci senza pudore le aperture di un apparato complesso, le stesse che si spalancano come una voragine tra schermo e immagine nel cinema di Joe Dante, mostrandoci il vuoto in film come Matinee e il recente The Hole. E’ una scrittura assolutamente tridimensionale quella di Coppola, ancora in grado di incendiare un’immagine ritornante che rivelando molteplici origini (Corman, Hitchcock, Castle, Poe, la stessa storia del cinema Coppoliana) si conficca come un paletto di frassino nel cuore di una storia personale con la violenza di una sovrimpressione vertiginosa, forse l’immagine più forte e significativa che è possibile rintracciare nel cinema di Francis Ford Coppola; due, tre, quattro immagini separate dal tempo che collassano una sull’altra. Se non si cede alla tentazione di seguire una storia con quel desiderio incancrenito di trovare risposte, non si può fare a meno di piangere quando il volto di Elle Fanning, quello di Kilmer, il corpo della figlia, la storia personale di Coppola e il peso dell’acqua diventano segni trasparenti.