Si potrebbe rileggere tutta la saga di Toy Story a partire dal songwriting di Randy Newman perchè anche se un brano crepuscolare come Cowboy riuscirebbe ad adattarsi solo parzialmente allo spirito di Woody, l’inadeguatezza vissuta dai “corpi” lasciati soli nei mondi Americani raccontati dal compositore di New Orleans si avvicina a quel senso di perdita e di sofferenza che imprigiona i giocattoli inventati da John Lasseter e Andrew Stanton sin dai tempi della prima cellula generativa, il violentissimo e crudele Tin Toy prodotto dalla Pixar nel 1988, che dentro il frullatore citazionista di Lee Unkrich trova posto nel lager di Sunnyside con il corpo di quel bimbo minaccioso e terribile capovolto nella deformazione del suo doppio-giocattolo, specchio amplificato di un’infanzia maltrattata.
Il Newman di You’ve Got a Friend in me è certamente quello più ruffiano e lontano dalla mancanza di pietà che scrutava il circo crudele dipinto intorno al deambulare grottesco di Davy il ragazzo grasso, ma quel confine tra i colori iperreali di un luna park e la parte più rancida dell’anima segna quasi tutte le figure di Toy Story 3, un’innocenza strappata, l’allusione strisciante ad un mondo che non si vede e che riverbera su corpi multiformi ben altre sofferenze, basta pensare all’apparizione grottesca di Chuckles il clown, sospeso tra un racconto di tenerezza e crudeltà, traccia una visione dell’abbandono che nasconde una moltitudine di rovesciamenti e cambi di registro.
In termini semplicemente narrativi è infatti dal racconto di Chuckles che l’anima di Lotso, l’orsacchiotto odor di fragola, perde le caratteristiche più oscure assumendo progressivamente il senso di una trappola terribile, quella dell’inesorabilità spietata di un destino che per quelli come lui sembra ripetersi senza via d’uscita.
Unkrich tra i registi Pixar è quello più legato di tutti alle storie di formazione, al rito di passaggio delle età dell’innocenza (Finding Nemo, Monsters & Co.), una propensione alle forme nostalgiche del crepuscolo simile al bellissimo Up! (recensito qui su IE Straneillusioni) ma che in Toy Story 3 sono amplificate in una versione più tetra e soprattutto scopica in senso del tutto tradizionale, almeno in rapporto a quello che potrebbe essere la visione stereo-scopica.
Quella concentrazione storico cinematografica che nel film di Pete Docter si coagulava nei primi venti minuti, impazzisce senza un attimo di tregua nel film di Unkrich, sono due approcci diametralmente opposti, le intuizioni contemplative del 3D di Up! potrebbero soddisfare la ricerca teorica di Jasper Sharp sulle possibili novità introdotte dalla tridimensionalità nel rapporto tra primo piano e sfondo.
L’editing di Toy Story 3 ha un taglio ferocemente ancorato al simulacro di una storia del cinema che mette in relazione il fuoco con il fuori fuoco, quasi che le possibilità del CGI slegate dalla tirannia delle leggi ottiche e dai limiti costruttivi di una lente venissero negate dalla riproduzione di un doppio visivo alieno da un mondo renderizzato.
Una strana forma di resistenza alla tridimensionalità che a differenza di Up!, molto sottile e avanzato nella resa dei suoi digital landscapes, punta al centro di un vortice quasi Tarantiniano cercando di neutralizzare l’esuberanza dei piani tridimensionali fuori dallo schermo con i tagli di un montaggio “tradizionalmente” post-moderno cosi da ricondurre la supremazia di un cinema dell’occhio al centro del quadro; una lotta interessante e drammatica tra due visioni, una dentro il crepuscolo dell’altra, una centrifuga che annichilisce anni di cinema e gadgettizza persino Totorò, cosi da rendere vera e allo stesso tempo assolutamente falsa l’affermazione di Mark Kermode che nel descrivere il cinema in 3D ci dice “non è mai stato il futuro del cinema, è e sara sempre il passato”.
A questa visione per certi versi suggestiva, ma allo stesso tempo pericolosamente metodista preferisco le possibilità ancora irrisolte, ma potenzialmente “alla ricerca” dell’universo Pixar, attentissimo alla fisiologia dell’inquadratura; è pertinente e sorprendente l’abbinamento con il consueto corto proiettato nelle sale prima di Toy Story 3; Day & Night (Quando la notte incontra il giorno, nella nostra edizione) è uno straordinario film sperimentale (nell’accezione più pura di possibilità) diretto da Teddy Newton che nelle parole dello stesso autore è l’incontro tra il giorno e la notte “sotto forma di due signori disegnati da un tratto bidimensionale; entrambi trasparenti sono una maschera (ndr. anche in senso tecnico) che racchiude due visioni dello spazio tridimensionale, una notturna l’altra diurna.
Inizialmente non si comprendono, capiranno di potersi offrire a vicenda due finestre differenti sullo stesso mondo”. Una metavisione suggestiva, non solo per introdurci in modo interpretativo al racconto di Toy Story 3, ma anche secondo una prospettiva visionaria.
Day & Night sono disegnati a mano e sembrano davvero provenire dal tratto anarchico di Borivoj Dovniković; in fondo come tutta la scuola di Zagabria, sempre in bilico tra contaminazioni e mutazioni estreme in un corpo solo (pittura, stop motion, collage), questo piccolo grande film di transizione, forse più di Toy Story 3, apre una finestra su due landscape tridimensionali infiniti, molto simili a quelli di Up!, educandoci ad una nuova visione con fede e scetticismo, decostruendo nel senso più pregnante del termine le origini di due immagini, ovvero disseminando tracce e radici (ancora) visibili.