“Io amo il cinema, perché è un insegnamento accessibile a tutti. Ignoranti e acculturati, tutti capiscono il cinema allo stesso modo. È per questo che ho iniziato a fare film.” Saba Sahar
Ed è proprio sulla cultura che le opere della regista afghana operano, a mani nude, in maniera talvolta rudimentale ma incredibilmente efficace e argomentata. Niente è migliore del registro comico per svelare le ipocrisie e le incongruenze del proprio contesto sociale di appartenenza, senza pertanto venire bollati come eversivi. Sebastian Heidinger, documentarista tedesco, segue Saba Sahar da vicino, con close-up all’interno del furgone che pagano un forte debito al cinema di Kiarostami. Il film ha un duplice scopo: da una parte, quello pratico e extra-cinematografico di aiutare la regista afghana nella ricerca di finanziamenti per le sue opere (come la scena dell’incontro col produttore tedesco ci mostra, è difficile, economicamente, finanziare un’opera che avrà una distribuzione molto accidentata). Dall’altro, quello di delineare un ritratto della regista nelle sue componenti artistiche, sociali e private. Ed è qui che i piani si sovrappongono, si intrecciano, comunicano, nei limiti della censura e soprattutto dell’autocensura. Saba Sahar manifesta, all’interno del documentario, una netta chiusura nei confronti della sua vita privata: eppure, il suo vissuto, i suoi sentimenti, i suoi dolori, sono tutti accennati, lasciati intuire, tramite myse-en-abyme necessarie, velate. Traumfabrik Kabul è un gioco di vedo – non vedo che si fa tanto più rivelatore quanto più è teso: il fascismo escludente del racconto filmico non è altro che un eco di quello sociale afghano. Traumfabrik Kabul è uno scontro tra due esigenze uguali e di segno opposto, quella di Saba Sahar di nascondere e quella di Sebastian Heidinger di mostrare.