Adattamento dell’omonimo romanzo di Pascal Mercier, pseudonimo dello svizzero Peter Bieri, edito nel 2004 e benedetto da travolgente fortuna editoriale (2 milioni di copie vendute, tradotto in 15 lingue) il Treno di notte di August ne ripercorre sferragliando gli stessi binari. Il ricatto emotivo alle platee è subito chiaro, il film le tiene a bada con una vicenda che strizza l’occhio alla commozione proiettando intrecci sentimentali, frustrazioni individuali, affondi nella psiche a suon di aforismi e piacevoli venature poetiche su scenari storici di sicura presa.
Dopotutto, la dittatura di Salazar in Portogallo, iniziata nel 1926 e fatta saltare nel ’74 dalla cosiddetta Rivoluzione dei Garofani, non aveva nulla da invidiare alle altre coeve sparse per l’Europa. L’unica differenza è che è durata il doppio, se ne è parlato meno e non ha fatto lo stesso scalpore, diluita nel tempo e sommersa dalle nebbie della marginalità della nazione.
Che poi abbia rivoluzionato anche un immenso impero coloniale, con conseguenze nefaste di cui quei territori e il Portogallo si leccano ancora oggi le ferite, è cosa che sembra non interessare né il romanziere né il regista, presi come sono a parlare di storia e storie secondo i consueti schemi: dittatori e scagnozzi picchiatori, resistenza e covi clandestini, qualche scena di pestaggio e tante ombre fra i vicoli e le salite della Baixa e dell’Alfama.
Eppure, il prof. Raimund Gregorius (Jeremy Irons), svizzero di Berna di mezza età indefinibile, ma certo mal portata, va proprio lì a cercar sè stesso il giorno in cui il caso (e che caso!) mette sulla sua strada piovosa una fanciulla che sta per buttarsi dal ponte. Mentre l’ombrello del prof. vola nel fiume e il pacco dei compiti di latino corretti si sparge per strada, il salvataggio si compie e gli occhiali del prof. questa volta si salvano (bisogna che si rompano più tardi, a Lisbona, lì dove la loro frantumazione determinerà la svolta casuale delle cose).
Di passaggio in passaggio, di casualità in casualità, si compie l’avventura del prof. di latino e lingue varie del passato (sappiamo dal libraio che non è ancora arrivato il testo di persiano antico che il prof. ha ordinato). Uscire dalla routine, liberarsi della maschera di “noioso” che la ex moglie gli ha incollato addosso e scoprirsi un istinto da detective aprendosi anche, forse, a futuri amori. Questo succederà, ma lui ne è inconsapevole, si muove come in trance, e Irons gli dà quell’aria svagata che dà sempre a tutto ciò che interpreta al cinema.
Un pezzo di storia del Portogallo sommerso dal tempo e dalla distanza viene a galla, un regime di ombre e nebbia torna alla memoria, chi avesse dimenticato Saramago, Remarque, De Oliveira e Pessoa ora ha Bille August vs Pascal Mercier a far da mentori.
Una ragazza sul ponte che subito sparirà (riapparirà alla fine per un chiarimento a dir poco surreale circa le ragioni del tentato suicidio), un libriccino pieno di belle parole, che una voce esterna non tralascia di ripetere quasi incessante, trovato nel suo cappotto rosso, la voglia di essere quello che non è mai stato. E’ quanto basta al prof. per mollare la classe e saltare sul treno che parte fra un quarto d’ora (elogio all’efficienza svizzera, dal college alla stazione si arriva in un attimo, o forse sono ubicati vicini) e partire per Lisbona senza neanche un pigiama né uno spazzolino da denti.
Ma la lettura del libriccino di Amadeu Do Prado è totalizzante, non esiste altro per lui, è la voce che finalmente lo ha scosso dal suo torpore, dalla sua non vita.
Deve sapere, Gregorius, di questo Amadeu, degli uomini e delle donne di cui parla, delle storie di quel passato. E saprà, andando avanti e indietro, come il film, fra flashback e ritorni al presente in cui, più che a felici intersezioni di piani narrativi e temporali, sembra di assistere ad una puntata di Cold case.
E televisivo è un po’ tutto, in questo che sembra più uno sceneggiato di quelli tanto amati dalla TV italiana di prima serata che l’opera ultima di un autore due volte premiato a Cannes, detentore di un Oscar e insignito di una gran fama, agli esordi, di erede di Bergman.
Cosa vuole il prof. una volta a Lisbona? E’ quello che lo spettatore si chiede. Vuol sapere tutto di Amadeu, l’autore del libro che tanto lo intriga perché va dritto al suo cuore. Ma quando avrà saputo tutto cosa farà? A questo punto Bille August ricorre al finale aperto, altro non rimane da fare sui binari, mentre un treno aspetta. Partirà Gregorius? Non lo sapremo mai.
Un’ottima fotografia (Filip Zumbrunn) ha certo la sua importanza, crea empatia col pubblico; il cast internazionale delle migliori occasioni fa il resto (Irons, Ganz, Rampling, Courtnay). Quasi tutti molto over, restano dignitosamente aggrappati alla loro indiscussa bravura, in altri tempi folgorante.
Ora, però, alcuni di loro costringono a fare confronti con altri grandi vecchi del cinema, e la cosa non si risolve sempre in loro favore.
I volti nuovi e giovani restano nell’anonimato puro, nessun guizzo, benchè minimo. Amadeu Ignazio De Almeida Prado (Jack Huston), l’autore del libriccino, riappare dalle ombre del passato come il genius loci, da lui ci aspetteremmo carisma e fascino ipnotico (quasi un Pessoa che finalmente si alza dalla sua panchina di bronzo di fronte al caffè A Brasileira nel Chiado), e invece è un patinatissimo dottorino che si fa enorme fatica ad immaginare rivoluzionario. Piuttosto lo vedremmo bene nella parte del giovane amoroso sulla scena di un melodramma giocoso.
Dunque, come definire Treno di notte per Lisbona? Un “giallo dell’anima”? Un thriller psicologico? Un Libro dell’inquietudine in formato pocket? Forse, meglio, il lavoro di un autore dal passato troppo baciato dalla Fortuna, dea bendata in vena di scherzi, a volte. Pessoa sbircia da lontano, ha deciso di non alzarsi da quella panchina, gli bastano i suoi eteronimi, non ha bisogno della coppia Mercier/August per crearsene altri.