È un cinema di sguardi furtivi, gesti appena accennati e sentimenti silenziosi quello di Philippe Lioret che, come nel precedente Welcome, torna a intrecciare la banalità del male quotidiano, le trame di burocrazia e ipocrisia, alle vicende di uomini e donne che, malgrado tutto continuano a incontrarsi e ad amarsi. In Tutti i nostri desideri, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2011 e approdato nelle sale italiane nel maggio 2012, Vincent Lindon, attore feticcio di Lioret, interpretata Stéphane, un robusto giudice di mezz’età che incontra Claire, giovane collega che lo coinvolge in un difficile caso di superindebitamento. Disponibile in versione DVD il film è accompagnato da un ricco making of, con interviste al cast artistico e tecnico, e dal trailer.
Céline, madre single di due bambine, sommersa dai debiti, è citata in giudizio da una compagnia di credito. Soldi facili per esaudire “tutti i nostri desideri”, a un tasso di interesse che rasenta l’usura, si intende. Claire e Stéphane impegneranno ogni energia per tutelare Céline e le sue bambine. La giustizia non è una virtù astratta, ma una razionalità in movimento, la capacità di prendere le decisioni migliori nella situazione in cui ci si trova: i due magistrati sembrano pronti a scardinare il sistema legale francese per mettere alla berlina i signori degli istituti di credito, professionisti della truffa che attraggono i disperati. Fin qui nulla di strano. Eppure la pellicola di Lioret non si avvia sulla facile strada del film di denuncia, costruito attraverso il rapporto fra un giovane magistrato socialmente impegnato e un uomo maturo che ha nascosto i propri ideali nel cassetto. C’è molto di più. Perché Tutti i nostri desideri si apre sull’immagine di un sereno quadretto domestico: è la famiglia di Claire, i suoi figli, il marito che l’adora, la casa arredata con cura. Insieme alla mdp anche gli spettatori entrano nell’esistenza della donna, magistrato di giorno e madre di famiglia la sera. Eppure, come Claire (e noi con lei) scoprirà di lì a poco, un tumore maligno si è insinuato nella sua testa, formando una zona d’ombra che non le lascia scampo. In più la donna, un tempo bambina in una famiglia disadattata, ha vissuto sulla propria pelle il dramma di un’esistenza a credito: il senso di empatia nei confronti di Céline spinge Claire a lasciarla entrare nella propria esistenza, in qualche modo offrendole il proprio posto, di donna e di madre, di fronte alla fine imminente. L’orizzonte della morte modifica tutte le coordinate: la ricerca della giustizia diventa una corsa contro il tempo per garantire alla sua famiglia una serenità da cui lei sarà esclusa. L’amore si trasforma nella possibilità di donare qualcosa a chi ci sta accanto. Giustizia, miseria, infanzia rubata, malattia sovrappongono senza forzature. A fare da collante è lo sguardo umanistico di Lioret, nell’avvicendarsi continuo di lontananza e vicinanza, compartecipazione e osservazione. Tutti i nostri desideri è un’opera sensoriale e quasi sinestetica nella compenetrazione di luci, colori, suoni (le composizioni originali di Flemming Nordkrog, scaturite dalla semplice lettura dello script) e percezioni tattili (Claire che rabbrividisce al sole dopo un bagno nell’acqua gelida, con Stéphane che la osserva ondeggiando ritmicamente; Claire e Stéphane seduti sugli spalti dello stadio semideserto, mentre perfino il loro respiro sembra assumere consistenza e spessore). Nell’evoluzione dei rapporti, delineati con delicatezza estrema nella continua modulazione dei toni, dei sorrisi, degli scambi verbali e fisici (Claire che offre il suo profumo a Céline o abbraccia il marito), risiede il cuore di un film in cui la battaglia sociale fa da palinsesto a una vicenda di sentimenti intimi e discreti. Asse portante della narrazione è il rapporto di complicità, amicizia, amore, che si instaura fra Claire e Stéphane, esseri affini nel pudore rispettoso che li tiene legati senza comprometterne i rispettivi legami familiari, individui che si cercano, sfiorandosi appena la mano, restando in qualche modo legati fino al momento dell’inevitabile congedo. Non c’è glamour o enfasi nella mano di Lioret, non ci sono eroi o paladini, ma individui velati da ansie, desideri e slanci di grazia. La trama è secondaria, al centro c’è la vita, nell’alternarsi casuale di pause e accelerazioni, nelle tinte tenui del quotidiano, dove lacrime e passioni sono contenute da una compostezza che non cede mai al melò, lasciando che anche la morte rimanga una voce fuori campo.