Rose è un nome antico, quello della nonna di Régis Roinsard, giovane regista esordiente nel lungometraggio dopo un utile apprendistato nella produzione di audiovisivi, spot pubblicitari, video musicali e documentari. A volte percorsi del genere non si rivelano condizionamenti negativi se l’approdo al cinema con un’opera prima riserva sorprese così gradevoli.
L’incontro con Daniel Presley, produttore musicale, e Romain Compingt, sceneggiatore, ha creato una felice alchimia, e il risultato è una commedia frizzante, dai toni perfettamente equilibrati tra favola e realtà, sentimentale quanto basta senza diventare zuccherosa, dalla classe tutta francese ma con una strizzatina d’occhio alla grande tradizione americana.
Wilder e Sirk si avvertono sullo sfondo come numi tutelari, con quel gusto innato per gli intrecci serrati che attingono al mélo senza farsene soggiogare, mentre fissano sullo schermo con sicura intelligenza i connotati di un’epoca, di un costume, di un vivere sociale. Il succedersi dinamico dei colpi di scena, il carosello dei personaggi messi a fuoco con tocco elegante, lo scoppiettare dei dialoghi, alimentati da quel tono “medio” della vita quotidiana che s’impenna nella battuta fulminante, nella risposta giusta, tutto questo c’è in un film che sembra aver ereditato il meglio di una gloriosa tradizione.
L’eroina al centro della storia è una Cenerentola per cui il riscatto sociale non arriverà sulla scia di una scarpetta di vetro. Come la splendida Sabrina di wilderiana memoria, sottile giunco sbocciato nel piano della servitù, o la simpatica Fran Kubelik (L’appartamento) addetta agli ascensori di una grande compagnia di assicurazioni, dove si sale o si scende passando per l’appartamento compiacente di Cicci Baxter, il suo apprendistato in un mondo in cui la donna non è più solo oggetto di consumo è lungo e faticoso. E, soprattutto, passa per le sue mani dalle unghie dipinte con colori diversi, come i tasti della macchina da scrivere su cui imparerà a battere a velocità da competizione con dieci dita e si giocherà il suo destino.
Anni ’50 ricostruiti con cura filologica, décor, automobili, gonne svasate e colori pastello, trucco, linguaggio, e, soprattutto, sound , un abile mix fra Les Baxter, Martin Denny e le calde e suadenti malinconie di Yves Montand, Léo Ferré, Georges Brassens, fino ai magnifici exploit sonori di Edith Piaf. Il Cha Cha Cha della segretaria, nella versione di Jack Ary, è infine la ciliegina sulla torta, in una delle scene più convincenti, al culmine della salita di Rose verso il successo.
Rose (Déborah Francois) e Louis (Romain Duris) hanno le facce giuste: lei ragazzotta della bassa Normandia in cerca di emancipazione da un padre burbero che la vuole sposata al buon partito del paese, lui piccolo assicuratore di Lisieux, frustrato nei sogni giovanili di gloria atletica, troppo onesto per cogliere al volo l’unica occasione che aveva messo un Van Gogh sulla sua strada, vittima di un padre castrante e di una guerra da cui non è tornato né martire né eroe.
Il suo riscatto sarà Rose, da lui avviata al trofeo internazionale di dattilografia agonistica, con una geniale inversione di tendenza rispetto a tempi in cui era l’eroe a tornare con trofei.
Si respira aria di tempi nuovi, nel ’59 diventare segretarie era il primo scalino da salire per una donna che non volesse più dedicarsi al punto croce o a zappare l’arida zolla. Incredibile a dirsi, si giocavano autentici campionati transcontinentali, con un tifo da stadio in immensi stanzoni attrezzati di tutto punto, con file di tavoli e macchine da scrivere di ogni tipo. L’imprenditoria muoveva anche lì i suoi passi, inaugurando le stesse logiche rapaci, e la diva di turno diventava in un attimo testimonial del nuovo modello Populaire, titolo originale del film e nuovo brand nato per lei: una macchina tutta rosa per la nuova campionessa Rose.
Ma una favola che si rispetti ha bisogno di un lieto fine, che, puntualmente, arriverà, con Louis, con la vecchia macchina da scrivere del negozio di papà e con l’amor che move il sole e l’altre stelle…
Era solo il 1959, c’era ancora tempo per vivere le favole di Grimm, dieci anni o poco più, e poi si scriveranno altre storie molto meno allegre, mentre la vecchia, cara macchina da scrivere finirà in soffitta.