Una parabola malinconica, quella di Camille (Lola Creton) e Sullivan (Sebastian Urzendowsky), che Mia Hansen-Løve cuce con minimalismo di tocco su due attori con la faccia qualsiasi per una storia qualsiasi, un amore di gioventù. Essenziale nella messa in scena, rarefatto nei dialoghi, ha la freschezza delle istantanee e la tenerezza nostalgica del temp perdu a cui solo possiamo chiedere chi siamo.
L’amore di Camille per Sullivan è totalizzante, quello di Sullivan per Camille no.
Sullivan ha bisogno di spazi liberi, il Sud America è l’oltremare che lo attrae per il suo folle volo. Camille ha le radici in terra, costruirà case, nel razionalismo del Bauhaus è la sua forza, nelle case di vetro che nulla nascondono la sutura alle sue lacerazioni. Hansen-Løve ottiene empatia con accordi minimi, dissonanze improvvise, riprese di ampio respiro subito spente in un pianissimo che sfuma. Orchestrazione dai toni smorzati per una storia eterna, l’amore che nasce, esplode nei sensi e travolge i pensieri, occupa lo spazio e monopolizza il tempo, ma può non essere tutto, come per Sullivan, o può diventare altro, come per Camille e Lorenz (Magne Brekke), può allontanarsi e sopravvivere, quindi tornare e bruciare ancora. Infine può lasciarci con una promessa, quella di Sullivan nella sua ultima lettera.
Ritrovarsi, forse, un giorno, e intanto la vita continua.
C’è la Francia di Rohmer e Truffaut, ma c’è anche qualcosa di più freddo, che viene dal nord, una ventata gelida refrattaria a concessioni pittoriche, sbiadiscono i colori dell’Ardèche e Parigi può “mettere tristezza”, come a Sullivan.
Il talento della giovane regista al suo terzo lavoro è in primo piano, innegabile.
Premiato dalla giuria a Locarno, segue Tout est pardonné e lo straordinario Il padre dei miei figli, sulla morte suicida di Humbert Balsan, produttore del suo primo film e instancabile sostenitore di Tarr e Von Trier.
Hansen-Løve coinvolge senza toccare il tasto delle emozioni, il suo è un passo meditato, ha un equilibrio classico e un senso misurato della messa in scena, sa quando aprire e chiudere l’obiettivo, chiede a piccoli frammenti di realtà di collocarsi al tempo giusto e nel disegno simmetrico del racconto. L’elemento portante dell’opera ne risulta definito, lineare, i dettagli si distribuiscono in giusto equilibrio a descrivere le stagioni degli uomini che passano, le persone con le loro storie precarie, la natura con la sua vicenda sempre ricorrente. Camille riassume nel portamento leggero, quasi da ballerina, il sentimento tenero e la malinconia sognante della piccola donna innamorata. Sullivan ha rudezze inattese e semplici abbandoni, attraversa la città con la sua bicicletta pedalando veloce, è il cavaliere di ventura sul suo cavallo, ma al ritorno non porterà trofei.
Nei due tempi della storia che si sviluppa nell’arco di sette anni il tema centrale si svolge coerente: ostinato, a tratti singhiozzante, nervoso nel primo, appassionato, calmo, maturo e rassegnato nel secondo. Perdiamo quasi la nozione del tempo e dello spazio, le varianti si allontanano sullo sfondo, resta, in primo piano, una semplice storia d’amore.
Il cappellino di paglia bianca vola via sull’acqua del fiume, sembra che Camille non se ne accorga neppure mentre continua a nuotare, è un’altra estate di un altro anno.