De Rouille et d’os, di ruggine e di ossa è il sapore che si avverte quando la bocca si riempie di sangue e un cortocircuito di sensazioni contrastanti pervade la mente dell’uomo al tappeto, il pugile finito ko dopo una sequenza di calci e di pugni ben assestati. A breve distanza da “Un prophèthe”, il film è, come la precedente pellicola di Jacques Audiard, un altro lavoro sulla capacità di sopravvivere, di crearsi la propria nicchia in un universo ostile. Presentato in concorso allo scorso Festival di Cannes, De Rouille e d’os è un’opera dal taglio espressionista, che apre e chiude squarci sinestetici su un mondo brutalizzato, maschile, dominato dalla violenza e dall’opposizione di corpi che lottano o si uniscono per qualche istante. Audiard connette i tasselli di un paesaggio dove la durata (delle relazioni, delle attività, della sicurezza) non sembra aver diritto di cittadinanza, un cosmo dominato dall’imprevisto e dall’incapacità umana di donare stabilità. Dove regna la forza, la grazia si insinua a fatica, si maschera e si nasconde, riuscendo tuttavia, attraverso una serie di mosse impercettibili, a sgretolare il muro dell’indifferenza. Adattando il primo dei racconti di “Rust and Bone”, la raccolta di Craig Davidson, Audiard traspone sullo schermo il magmatico materiale messo a disposizione dall’autore canadese, trattenendo suggestioni, colori e dettagli, coagulati intorno ai suoi due protagonisti, Stéphanie (Marion Cotillard) e Ali’ (Matthias Schoenaerts), che nel testo letterario erano soltanto suggeriti. Sthéphanie, istruttrice di orche in un parco acquatico, perde entrambe le gambe in seguito a un incidente in vasca. Poche settimane prima, dopo essere stata aggredita in un locale notturno, aveva conosciuto Ali’, buttafuori di notte e pugile di giorno. Ali’ è uno sradicato, che da poco ha deciso di prendersi cura del figlio, il piccolo Sam, ricucendo il rapporto con la sorella Anna. Si installa a casa del cognato, consumando lavori, incontri clandestini, cibarie raccattate o rubate, passioni momentanee. Dei molti film sulla boxe, Audiard non condivide nemmeno l’ambientazione: i suoi pugili sono ex galeotti o uomini senza nome, che si battono in un cortile dietro un capannone, ignari di regole e di limiti. De Rouille e d’os è il Furore di J. Audiard, dove utopia e disperazione si integrano in uno scenario da Grande Depressione contemporanea. Dolcezza e ferocia si mescolano di continuo nel rapporto con il figlio, il bimbo curioso lasciato in eredità da una compagna ormai dimenticata. Il pugile si muove come un animale errante, come incapace di controllare e dirigere la propria forza: il piccolo Sam, che piange disperato, è scaraventato contro il mobile del soggiorno, lavato con l’acqua gelida in mezzo al giardino, mentre gli avversari crollano a terra, devastati dalla carrellata di pugni. Dopo l’incidente Stéphanie cerca quell’uomo ruvido e buono che una notte l’aveva accompagnata a casa. Da qui nasce un inedito sodalizio, un rapporto di amicizia, sesso, forse amore, fra una donna ridotta alla metà di se stessa, menomata nel corpo e travolta nello spirito, e un uomo dalla fisicità prorompente. Due animali agli antipodi che incrociano le loro solitudini; offrendosi l’un l’altro una parvenza di stabilità. Dal corpo deturpato di Marion Cotillard emerge una disperata sensualità, che Audiard esalta con pudore, pur senza lasciare nulla alla semplice intuizione. Nel momento piu’ duro della lotta, quando il pugile giace a terra inerme, limitandosi a incassare i colpi con sguardo ormai vitreo, la visione improvvisa della donna inconsapevolmente amata è sufficiente per restituirgli la lucidità necessaria per invertire il corso degli eventi. Audiard procede per simboli (l’acqua elemento di vita e di morte, gli animali addomesticati, lo scontro di classe fra padroni e sottoposti), incrociando una storia d’amore sui generis, alla ricostruzione della relazione filiale, tema da sempre caro al regista francese (De battre mon coeur s’est arrêté). Il doppio binario di ricerca sfocia in un impossibile fuga, nell’autosottrazione dell’animale braccato a un sistema di doveri che fatica a sentire propri, fino alla traumatica assunzione di responsabilità, che coinciderà con la capacità di volgere la propria forza all’istinto di vita e non alla pulsione di morte. Il regista ha dedicato il film alla memoria di Claude Miller, figlio della Nouvelle Vague recentemente scomparso che, nell’1983, aveva tratto un film dall’adattamento di Mortelle randonnée, realizzato da Jacques Audiard e dal padre Michel. Non a caso, un altro film che, dietro il paravento di un’inchiesta poliziesca, racconta una storia di sconfitta e di ricerca.