Selezionato per la scorsa edizione del Sundance Film Festival e da poco disponibile in DVD, Vegetarian è il controverso debutto alla regia del Coreano Lim Woo-seong.
Legato ad un’idea forte, sin dal titolo, come quella del rifiuto della carne, sembra allontanarsene progressivamente dissolvendosi in un complesso rituale di passaggio dall’evanescenza onirica. Chae Min-seo (The Wig, Loner) è Yeong-hye, una giovane casalinga che decide improvvisamente di non cibarsi più di carne, liberandosi di tutto il cibo animale e dei derivati stipati nel frigo di casa con una serie di azioni compulsive, Lim Woo-seong ci introduce in modo ambiguo e inquietante nella percezione del Vegetarianesimo inteso come malattia, è uno sguardo crudele che include il punto di vista di un’intera cultura, quello della famiglia e una sfera più ampia del desiderio, osservatori che cambiano continuamente soggetto, registro, obiettivi, senza che prevalga l’autorità di un’occhio morale, ma al contrario costruendo a poco a poco un piccolo esempio di cinema della crudeltà per certi versi molto vicino allo spazio intimo e mentale di alcuni film di Kim Ki Duk, cosi sospesi tra materia e memoria, carne e psiche.
Buona parte della stampa statunitense ha stigmatizzato l’involucro esterno del film come una scusa per includerne un secondo, ovvero tutta la sezione centrale di Vegetarian dove Yeong-hye, vivendo in uno stato di salute al limite della sopravvivenza sotto la protezione della sorella Ji-hye, incontrerà più volte il cognato Min-ho, pittore in crisi creativa, che in totale clandestinità utilizzerà il corpo nudo di Yeong-Hye come una tela per dipingere motivi floreali intorno ai lividi e ai “Mongolian Spots” (titolo della short story di Han Gang da cui è tratto il film Lim Woo-seong) della donna. C’è in realtà un legame strettissimo e allo stesso tempo volatile tra il rifiuto assoluto della carne e questa riduzione del corpo ad un territorio di conoscenza del desiderio tra performance e comunione con la natura.
Lim Woo-seong in alcune dichiarazioni a mezzo stampa offre una chiave che è comunque una prospettiva limitata, come in tutti i “formati” intervista, scegliendo una via urticante e difficilmente accettabile in un’accezione politicamente corretta: “Essere Vegetariani non riguarda solo il rifiuto della carne, ma il rifiuto di tutta la sfera dei desideri“.
Si tratta di un’interpretazione enigmatica e radicale, ma allo stesso tempo utile per introdurre un’osservazione della realtà senza logica morale, se non quella del controllo (e del diritto al…) del proprio corpo.
Non ci è parso allora di vedere due film nettamente separati, tutto il lungo episodio di scoperta e ri-conoscimento del corpo “fuori dal corpo” che coinvolge Yeong-hye e Min-ho, i lividi che diventano di-segni, l’anoressia sessuale osservata in una complessa rete di relazioni (familiari, personali, politiche), non diventano mai una didascalia a margine, non trovano l’immagine della consolazione, non permettono di giudicare, sembrano al contrario promanare da un passaggio ossessivo tra l’occhio vitreo di un cinema di “pura” crudeltà e la possibilità meditativa di un cinema di poesia.
Ci sono due cesure violentissime in questo senso che fanno da confine al ricovero di Yeong-hye in clinica, come se queste due sezioni del film l’una apparentemente aliena all’altra fossero originate da uno o più sogni senza un reale segno gerarchico che ne stabilisca l’ordine o che ci racconti quale è il contenitore e dove stia realmente il contenuto.
Abbastanza “comprensibile” allora il disappunto di una critica di matrice “pragmatica” di fronte a un film che non chiude con nessuna sutura un’idea come quella del Vegetarianesimo, qui trattata in modo astratto e materiale allo stesso tempo, con la rappresentazione del corpo intimo e politico senza che vi sia una reale mediazione tra punti di vista e le loro contraddizioni.
Tagliano come una lama le fulminanti sequenze di accanimento terapeutico sul corpo di Yeong-hye, costretta a mangiare quando il suo desiderio è quello di sgonfiare completamente gli organi interni, per non lasciare nessuna traccia animale dentro di se. La malattia di questo film oscuro allora, cambia secondo percezione, il diritto a morire della propria morte diventa comprensibile anche per Ji-hye quando osserva atterrita la violenza clinica inferta sul corpo della sorella.
Per Ji-hye, che fino a quel momento ha rappresentato la versione silenziosa, protettiva e “tenera” della cultura dei padri, quella che massacra i cani a bastonate come se fosse l’unico codice che la natura ci ha insegnato, l’osservazione della realtà è arricchita da un segno palindromo: “come quando sogniamo, abbiamo la sensazione che il sogno sia “tutto”; ed è solo quando ci svegliamo che riusciamo a comprendere che non è “ogni cosa”, cosi come un giorno quando ci sveglieremo, allora…”
Risorse:
Leggi l’intervista di Lim Woo-seong rilasciata a Yonhap News Agency