Della Venere Ottentotta non rimane che un calco e i genitali estirpati, immagine tombale sull’evoluzione dell’antropologia moderna che Kechiche filma evocando immagini di barbarie civilizzate. E’ la storia di Saartjie Baartman, costretta agli inizi dell’ottocento a esibirsi tra Londra e Parigi in una serie di numeri umilianti che sottopongono il suo corpo ad una progressiva violazione. La percezione razziale per Kechiche prima ancora che un problema politico o un confronto tra due livelli di civiltà è un lavoro certosino di prossimità ai corpi che costruisce, anche per chi guarda, la complessità di uno sguardo della differenza semplicemente affidandosi alla performance. Se un film come Cous Cous disperdeva la narrazione in un’ossessiva e coinvolgente ripetizione performativa di vitalità musicale, nel suo ultimo film il regista franco-tunisino rappresenta un veloce scivolare di quella forza vitale nell’orrore distruttivo della morte e della sopraffazione; il corpo di Yahima Torres, a differenza di quello di Hafsia Herzi, non può essere lo stesso e non può essere filmato nello stesso modo; quella di Saartjie è una massa sempre più minata dalla malattia, stanca di vivere, costretta a ripetere l’oscenità dei soliti numeri porta dentro di se un cancro indotto che è anche quello di uno sguardo glacialmente pornografico capace di sovrapporre orrore e commozione cosi da renderli indistinguibili; è in fondo la stessa confusione tra ipocrisia e pietà che Kechiche filma con un attenzione sorprendente dentro gli interni libertini francesi fermandosi sui volti e sulle reazioni difformi degli astanti. L’antropologia Kechichiana non può non essere allora meno spietata dello stupro culturale che mette sul banco autoptico; una freddezza necessaria.