Sono le sconnessioni dello spazio e la psicogeografia del viaggio che regolano il movimento dei personaggi nel primo, sorprendente, film di lunga durata del Taiwanese Jing Jie Lin. Xiao Tang è un fonico scaricato dalla sua produzione a caccia di epifanie sonore da catturare con il suo apparato. Utilizza un registratore a bobine per raccogliere i pezzi di un anti-racconto fatto di rumori, accidenti ambientali, suoni della natura, impermanenze foniche del viaggio. Riversa i suoni su comuni audiocassette e li spedisce all’indirizzo della sua ex compagna. E’ Rouyun, la nuova inquilina, che riceve i nastri e permette che quei suoni riverberino sulle sue abitudini affettive, visive, auditive. In questo doppio percorso si incunea la visione sugli affetti di uno psichiatra in crisi, indagatore dell’inconscio alla ricerca del suo. The most distant course raggiunge un alto livello di commozione proprio nella discrasia di un tempo e l’altro con un dialogo continuamente rovesciato tra la finzione e schegge di realtà documentabile; sono queste a subire l’arbitrio della scelta affettiva e a rivelare un movimento che da materico diventa metafisico. Il cinema di Jing Jie Lin sembra attraversato da una tenera astrazione, attento a cogliere le increspature dell’ambiente e la pesantezza/leggerezza dei corpi che l’attraversano. E’ una suggestione a cui non vogliamo rinunciare quella di stabilire una sorta di cieca comunicazione con un film del concorso di Venezia 64, quel La ciudad de Sylvia che incarna l’occhio di un flaneur impostore in una costruzione talmente perfetta, falsificante e guidata dall’ansia del controllo. The Most distant course non cade nella trappola di questa presenza dell’occhio a se stesso, al contrario mostra l’assenza del suono e dell’imagine. Il film di Jing Jie Lin è un’immagine dell’assenza, è la perdita del controllo durante l’imprevisto di qualsiasi viaggio, è l’in-sicurezza della perdita affettiva che dal dolore muta in uno sguardo tenero, e ancora una volta lontanovicino.